«Nel mio sogno ti davo la caccia» disse Shadow mentre il vento gli strappava le parole. «Nel mio sogno dovevo riportare indietro una piuma.»
Sì. La parola risuonò come uno scoppiettio nella radio mentale. Venivano a cercarci per le piume, per provare d’essere uomini; e venivano anche per strapparci dalla testa la pietra, per far dono ai loro morti della nostra vita.
Un’immagine lo assalì: un uccello del tuono — una femmina, perché aveva un piumaggio marrone — giaceva morto sul fianco di una montagna. Accanto c’era una donna intenta a spaccargli la testa con un pezzetto di silice. Rovistò con le dita tra le schegge d’ossi e il cervello fino a quando non trovò una pietra trasparente e levigata che aveva il colore cupo del granato, con bagliori opalescenti, in profondità. La pietra aquilina, pensò Shadow. La donna l’avrebbe portata al figlioletto morto da tre giorni, gliel’avrebbe appoggiata sul petto freddo. Prima dell’alba il ragazzo sarebbe tornato a vivere, a giocare, il gioiello invece sarebbe stato grigio, opaco e morto come l’uccello a cui era stato rubato.
«Capisco» disse. L’animale gettò la testa all’indietro e gridò, il suo grido era il tuono.
Il mondo sotto di loro sfrecciava a lampi come in uno strano sogno.
Laura afferrò con forza il bastone e aspettò che l’uomo che le aveva detto di chiamarsi World si avvicinasse. Guardava la tempesta e le montagne verde scuro.
In questo triste mondo, pensò, il simbolo è la cosa. Esatto.
Sentì che lui le aveva appoggiato una mano sulla spalla destra.
Bene, pensò. Non vuole che mi preoccupi. Ha paura che getti il suo bastone giù dalla montagna, ha paura di perderlo.
Lei si appoggiò un pochino all’indietro fino a toccare con la schiena il petto di lui. Lui la circondò con il braccio sinistro. Era un gesto intimo. Teneva la mano sinistra aperta davanti a lei. Laura strinse ancora più forte le mani intorno all’estremità del bastone, espirò, concentrata al massimo.
«Dammelo, per favore» le disse lui all’orecchio.
«Sì. È tuo.» Poi, senza nemmeno sapere se significasse qualcosa, disse: «Dedico questa morte a Shadow» e si conficcò il bastone nel petto, proprio sotto lo sterno: lo sentì fremere tra le dita mentre si trasformava in una lancia.
Da quando era morta il confine fra sensazione e dolore si era esteso. Sentì la punta della lancia penetrarla e uscirle dalla schiena. Un momento di resistenza — spinse un altro po’ — e la punta penetrò anche il signor World. Avvertì il respiro caldo di lui sul collo, e un gemito di dolore e sorpresa, quando capì d’essere stato trafitto dalla lancia.
Non riconobbe le parole che disse, né la lingua in cui le pronunciò. Continuò a spingere la lancia attraverso il proprio corpo perché entrasse completamente in quello di lui.
Sentiva il suo sangue caldo sulla schiena.
«Puttana» le disse in inglese. «Lurida puttana.» Probabilmente la lama aveva perforato un polmone perché la sua voce suonava gorgogliante. Adesso il signor World cercava di muoversi e a ogni movimento spostava anche lei: erano uniti dalla lancia, infilzati come due pesci su uno spiedo. Adesso World aveva in mano un coltello con cui cercava di colpirla al petto e al seno senza riuscire a vedere dove.
A Laura non importava. Cos’è qualche coltellata per un cadavere?
Lo colpì con un pugno sul polso e il coltello volò sul pavimento. Lei lo allontanò con un calcio.
Adesso World piangeva e gemeva. Lo sentiva rovistare con le mani sulla sua schiena, aveva le sue lacrime calde sul collo; la schiena era inzuppata di sangue, che colava anche lungo le gambe.
«Dev’essere una scena pochissimo dignitosa» disse lei in un morto sussurro non senza un certo macabro umorismo.
Si accorse che lui incespicava, incespicò anche lei e poi scivolò nel sangue — tutto di World — che stava formando una pozzanghera sul pavimento della grotta. Caddero insieme.
L’uccello del tuono atterrò nel parcheggio di Rock City. Pioveva a dirotto e c’era una visibilità di tre metri scarsi. Shadow lasciò andare le piume dell’uccello, ricadde con un tonfo sull’asfalto bagnato e scivolò.
L’uccello scomparve in un baleno.
Shadow si rimise in piedi.
Il parcheggio era vuoto per tre quarti. Shadow si diresse all’ingresso passando davanti a una Ford Explorer marrone parcheggiata vicino a una parete rocciosa. Siccome c’era qualche cosa di molto familiare nell’automobile si fermò per dare un’occhiata e vide l’uomo rovesciato sul volante come addormentato.
Aprì la portiera.
L’ultima volta che aveva visto il signor Town era stato davanti al motel costruito nel centro dell’America. Adesso aveva un’aria sorpresa. Qualcuno gli aveva tagliato il collo con mani esperte. Lo toccò: era ancora tiepido.
Aleggiava un odore nell’abitacolo, debole come un profumo lasciato in una stanza tanti anni prima, un odore che lui avrebbe riconosciuto tra mille. Richiuse con un tonfo la portiera della Explorer e attraversò il parcheggio.
Mentre camminava sentì una fitta nel fianco, un dolore lancinante che durò soltanto un secondo, o forse meno, prima di scomparire.
Alla biglietteria non c’era nessuno. Attraversò l’edificio e sbucò nei giardini di Rock City.
Un tuono scoppiò con un boato scuotendo i rami degli alberi e riverberandosi nel cuore delle rocce più grandi, mentre la pioggia cadeva con fredda violenza. Benché fosse tardo pomeriggio sembrava già notte fonda.
La scia di una saetta squarciò le nubi e Shadow si chiese se fosse l’uccello del tuono che ritornava alla sua rupe scoscesa o soltanto una scarica atmosferica, oppure se le due idee, su un certo piano, non coincidessero, diventando la stessa cosa.
Effettivamente lo erano. Quello era il senso, dopotutto.
Una voce maschile. Shadow la sentì, e credette di distinguere le parole «… a Odino!».
Attraversò la Seven States Flag Court correndo sul lastrico reso più scivoloso dalla pioggia. Scivolò, infatti. Intorno alla montagna la nuvolaglia era densa, e nella tetra luce della tempesta di là della corte non si vedeva nemmeno uno degli stati promessi dalla pubblicità.
Nessun suono, il luogo sembrava deserto.
Gridò e immaginò di sentire qualcuno rispondere. Si diresse verso il luogo da cui gli era sembrato che provenisse la voce.
Nessuno. Niente. Soltanto una catena all’entrata di una caverna per impedire l’accesso ai visitatori.
La scavalcò. Si guardò intorno nell’oscurità.
Si sentiva formicolare dappertutto.
Nell’ombra alle sue spalle una voce molto bassa disse: «Non mi deludi mai».
Shadow non si voltò. «Strano. Deludo sempre me stesso, però. In continuazione.»
«Ti sbagli» ribatté la voce. «Hai fatto quello che dovevi fare e anche di più. Hai attirato su di te l’attenzione di tutti, in modo che non guardassero mai la mano in cui era nascosta la moneta. Si chiama indirizzo erroneo, giusto? E c’è una grande potenza nel sacrificio di un figlio, potenza più che sufficiente per far girare la ruota. A dire la verità sono orgoglioso di te.»
«Era una truffa. Un imbroglio combinato. Di vero non c’era niente. Era una trappola per un massacro.»
«Esattamente» disse la voce di Wednesday dall’ombra. «Era un tavolo dove si barava. Ma era anche l’unico tavolo da gioco in città.»
«Voglio Laura» disse Shadow. «Voglio Loki. Dove sono?»
Nessuna risposta. Una spruzzata di pioggia lo colpì. Un tuono risuonò poco lontano.
Si inoltrò nella grotta.
Loki Lie-Smith sedeva per terra con la schiena appoggiata a una gabbia metallica. Dentro la gabbia c’erano alcuni pixy ubriachi che armeggiavano con un alambicco. Aveva addosso una coperta che lasciava vedere soltanto la sua faccia, e le mani, pallide e lunghe, appoggiate sopra. Sulla sedia vicino a lui era stata appoggiata una lanterna elettrica. Le pile erano quasi scariche e gettava una debole luce giallina. Loki era pallido e malconcio.