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Questo era un luogo vero al cento per cento.

Le pareti rocciose formavano un anfiteatro naturale, i sentieri di pietra lo attraversavano e lo circondavano creando tortuosi ponti naturali che zigzagavano fra le pareti rocciose come in un disegno di Escher.

E il cielo…

Il cielo era scuro. Era illuminato, in realtà, e il mondo sotto risultava rischiarato da una striscia bianco verdognola più abbagliante del sole che si biforcava come uno squarcio luminoso.

Era un fulmine, si rese conto. Un lampo raggelato per sempre. La luce che gettava era dura e spietata: sbiancava le facce, scavava occhiaie profonde.

La tempesta infuriava.

I paradigmi stavano cambiando, lo sentiva. Il vecchio mondo, un mondo di infinita vastità, risorse illimitate e futuro, veniva messo a confronto con qualcosa di diverso, una rete di energie, di opinioni, di abissi.

La gente crede, pensò. È così che fanno gli uomini. Credono. E poi non si prendono la responsabilità della propria fede; evocano le cose e non si fidano delle evocazioni. Popolano le tenebre di spettri, dèi, elettroni, storie. La gente immagina e crede: ed è questa fede, questa fede solida come la roccia che fa accadere le cose.

La cima della montagna era un’arena, se ne accorse subito, e li vide schierati sui due fronti opposti.

Erano troppo grandi. Tutto era troppo grande in quel luogo.

C’erano i vecchi dèi: divinità con la carnagione scura come funghi secchi o rosea come la carne del pollo o gialla come le foglie d’autunno. Alcuni erano matti e alcuni erano sani. Shadow li riconobbe: li aveva già incontrati, loro o altri simili a loro. C’erano ifrit e pixy, nani e giganti. Vide la donna intravista nella camera buia della casa nel Rhode Island, con la massa di riccioli serpeggianti. Vide Mama-ji, conosciuta sulla giostra, con le mani coperte di sangue e un sorriso sulle labbra. Li conosceva tutti.

Riconobbe anche quelli nuovi, però.

C’era un uomo con un vestito di foggia antiquata e l’orologio da taschino che doveva essere un magnate della ferrovia. Aveva l’aria di non passarsela troppo bene. Gli si contraeva la fronte.

C’erano i grandi dèi grigi degli aeroplani, eredi dell’antico sogno di far volare qualcosa di più pesante dell’aria.

C’erano le divinità delle automobili: un contingente numeroso dall’aria seria, con il sangue sui guanti neri e sui denti cromati: destinatari di sacrifici umani su una scala mai sognata dai tempi degli aztechi. Anche loro sembravano a disagio. I mondi cambiano.

Altri avevano le facce come macchie fosforescenti: brillavano leggermente come di luce propria.

Shadow provò pena per tutti.

I nuovi ostentavano una certa arroganza, era evidente. Comunque avevano paura.

Temevano che se non fossero riusciti a tenere il passo con il mondo che cambia, se non fossero riusciti a ricreare, ridisegnare e ricostruire il mondo a loro immagine, sarebbero ben presto passati di moda.

I due eserciti si fronteggiavano con coraggio. Per ciascuno schieramento i nemici erano demoni, mostri, dannati.

Shadow notò che c’era stata una scaramuccia, le rocce erano già sporche di sangue.

Si stavano preparando per la battaglia vera, per lo scontro finale. Adesso o mai più, pensò. Se non si muoveva ora sarebbe stato troppo tardi.

In America tutto dura per sempre, disse una voce nel ricordo. Gli anni Cinquanta sono durati mille anni. Hai tutto il tempo che vuoi.

Shadow entrò nell’arena con un passo che era a metà disinvolto e a metà malfermo.

Sentiva gli occhi di tutti su di sé, occhi e cose che non erano occhi. Rabbrividì.

La voce del bufalo disse: Stai andando bene.

Shadow pensò: Cazzo, sono ritornato dal regno dei morti questa mattina, il resto sarà una passeggiata.

«Lo sapete» attaccò in tono colloquiale senza rivolgersi a nessuno in particolare «che questa non è una guerra? Non lo è mai stata, nemmeno nelle intenzioni. E se qualcuno lo crede si sta facendo delle illusioni.» Borbottii contrariati si levarono dai due fronti. Non aveva impressionato nessuno.

«Combattiamo per sopravvivere» disse sommessamente il minotauro da un lato dell’arena.

«Combattiamo per vivere» gridò una bocca dentro una colonna di fumo scintillante dalla parte opposta.

«Questa terra non è una terra adatta agli dèi» riprese Shadow. Come attacco non era Romani, Concittadini, Amici, comunque poteva andare. «Probabilmente lo sapete tutti meglio di me. I vecchi dèi vengono ignorati. I nuovi sono accolti e subito dimenticati per essere sostituiti con quello che viene dopo. Quando non venite dimenticati avete paura di essere superati, oppure siete stanchi di dipendere dal capriccio della gente.»

Adesso i borbottii erano meno forti. Aveva detto qualcosa su cui potevano concordare tutti. Doveva raccontarla adesso la storia, mentre aveva la loro attenzione.

«Un giorno un dio giunse da una terra molto lontana. Man mano che diminuiva la fede in lui diminuivano anche il suo potere e la sua influenza. Era un dio che acquisiva potenza dal sacrificio e dalla morte e, soprattutto, dalla guerra. La morte di chi cadeva in guerra gli veniva dedicata, nella terra d’origine interi campi di battaglia gli avevano dato potere e nutrimento.

«Adesso era vecchio. Tirava avanti facendo l’imbroglione, insieme a un altro dio del suo pantheon, un dio del caos e dell’inganno. Insieme imbrogliavano i creduloni. Insieme derubavano la gente.

«A un certo punto, forse cinquant’anni fa, forse cento, studiarono un piano, un piano per creare una riserva di potere a cui attingere liberamente. Qualcosa che li rendesse più forti di quanto erano mai stati. Dopotutto che cosa può essere più forte di un campo coperto di dèi caduti? Il gioco che giocavano si chiamava "Lasciamo che si facciano fuori tra loro".

«Capite?

«La battaglia che siete venuti a combattere oggi non avrà vincitori né vinti. Vittoria o sconfitta per lui non contano, non contano, per loro. Ciò che conta è che cadiate numerosi sul campo. Ciascuno di voi, morendo, gli darà potere. Da ogni caduto lui trarrà nutrimento. Mi capite?»

Un suono, una via di mezzo tra ruggito e tuono, come l’esplosione di un incendio, attraversò l’arena. Shadow guardò verso il punto da cui proveniva. Un uomo enorme con la pelle color mogano, il petto nudo, un cilindro sulla testa e un grosso sigaro in bocca, parlò con una voce profonda come la tomba. Baron Samedi disse: «D’accordo. Però Odino è morto veramente durante i colloqui di pace. I bastardi l’hanno ucciso. È morto. So riconoscere la morte, su questo non mi imbroglia nessuno».

«Naturalmente» rispose Shadow. «Ha dovuto morire davvero. Ha sacrificato il suo corpo fisico perché potesse scatenarsi la guerra. Dopo la battaglia sarebbe ritornato più potente che mai.» Qualcuno gridò: «Tu chi sei?».

«Ero… sono… suo figlio.»

Uno degli dèi, e Shadow sospettò che si trattasse di una droga, dal sorriso scintillante che aveva, disse: «Ma il signor World ha detto…».

«Non esiste nessun signor World. Non è mai esistita una persona del genere. Era soltanto un altro dei vostri, un bastardo che cercava di nutrirsi del caos che aveva scatenato.»

Gli credettero, lesse il dolore nei loro occhi.

Scosse la testa. «Sapete, credo di preferire la condizione umana a quella divina. Non abbiamo bisogno che credano in noi. Tiriamo avanti lo stesso. È così che va.»

In quel luogo elevato seguì un lungo silenzio.