La portiera si richiuse e la lunga limousine si allontanò silenziosa. Shadow si trovava più o meno a duecento metri dal motel e si avviò, respirando l’aria fredda, passando davanti alle insegne al neon gialle e blu che reclamizzavano ogni tipo di fast food possibile e immaginabile, purché in forma di hamburger, e raggiunse il motel senza ulteriori incidenti.
3
Ogni ora fa male. L’ultima uccide.
Dietro il banco del Motel America c’era una ragazza dai lineamenti delicati. Gli comunicò che alla registrazione aveva già provveduto il suo amico e gli diede la chiave della stanza, un rettangolo di plastica. Aveva i capelli biondo chiaro e un tratto da roditore che si accentuava quando assumeva un’aria sospettosa, e scompariva quando sorrideva. Si rifiutò di dirgli il numero della camera di Wednesday e insistette per avvisarlo al telefono del suo arrivo.
Wednesday spuntò da una stanza in fondo al corridoio e gli fece un cenno di saluto.
«Com’era, il funerale?» chiese.
«E finito.»
«Vuoi parlarne?»
«No.»
«Bene.» Wednesday sorrise. «Si parla troppo, oggigiorno. Parole parole parole. Questo paese andrebbe molto meglio se la gente imparasse a soffrire in silenzio.»
Wednesday fece strada fino alla sua stanza, dall’altra parte dell’atrio rispetto a quella di Shadow. C’erano cartine geografiche dappertutto, aperte sul letto, appese alle pareti, ed erano tutte coperte di segni fatti con pennarelli dai colori vivaci, verde fosforescente, rosa accecante e arancione acceso.
«Sono stato sequestrato da un ragazzo ciccione» disse Shadow. «Vuole che ti dica che sei stato consegnato alla pattumiera della storia mentre quelli come lui viaggiano in limousine lungo le superautostrade della vita. Qualcosa del genere.»
«Moccioso.»
«Lo conosci?»
Wednesday scrollò le spalle. «So chi è.» Si lasciò cadere pesantemente sull’unica sedia della stanza. «Non hanno la minima idea» disse. «Non ce l’hanno, cazzo. Quanto devi trattenerti in città?»
«Non so. Una settimana, forse. Devo occuparmi di un sacco di cose. Pensare alla casa, liberarmi dei suoi vestiti, quelle cose lì. Sua madre diventerà pazza ma se lo merita.»
Wednesday annuì con il suo testone enorme. «Be’, prima finisci prima ce ne andiamo. Buona notte.»
Shadow attraversò il corridoio. La sua stanza era identica a quella di Wednesday, compresa la stampa di un tramonto rosso sangue appesa sopra il letto. Ordinò una pizza con formaggio e polpette, poi aprì l’acqua nella vasca versando dalle bottigliette di plastica tutto lo shampoo e il sapone liquido per fare più schiuma possibile.
Era troppo grande per potersi sdraiare nella vasca, ma cercò ugualmente di godersela anche da seduto. Aveva promesso a se stesso un bagno, appena fuori di prigione, e Shadow era uno che manteneva le promesse.
Non appena fu uscito dalla vasca arrivò la pizza, che mangiò bevendoci sopra una bibita frizzante.
Sdraiato a letto, pensò: Questa è la mia prima giornata da uomo libero, e il pensiero gli procurò meno piacere di quanto avesse immaginato. Lasciò le tende scostate per vedere le luci delle automobili che passavano e le insegne dei fast food di là della finestra, trovando conforto nel sapere che fuori c’era il mondo, un mondo che, volendo, avrebbe potuto raggiungere in ogni momento.
Avrebbe potuto essere nel letto di casa sua, pensò, nell’appartamento in cui aveva abitato con Laura, in quel letto che avevano condiviso. Ma il pensiero di esserci senza di lei, circondato dalle sue cose, dal suo profumo, dalla sua vita, era davvero troppo doloroso…
Non farlo, si disse. Decise di pensare ad altro. Provò con i giochi con le monete. Sapeva di non avere la personalità dell’illusionista; non riusciva nemmeno a inventare le storielle necessarie, e non desiderava fare giochi di prestigio con le carte né far comparire fiori. Voleva soltanto manipolare le monete, apprezzava l’abilità necessaria per farlo. Cominciò a elencare mentalmente tutte le tecniche di palmaggio che conosceva, e il pensiero tornò al quarto di dollaro che aveva gettato nella tomba di Laura e poi a Audrey che gli diceva che Laura era morta con l’uccello di Robbie in bocca, e provò un’altra volta una piccola fitta al cuore.
Ogni ora fa male. L’ultima uccide. Dove l’aveva sentito?
Pensò al commento di Wednesday e involontariamente sorrise: aveva sentito troppa gente esortarsi a vicenda a non reprimere i propri sentimenti, a lasciar fluire le emozioni, a sfogare il dolore. Secondo lui anche la rimozione aveva i suoi pregi. Se la si praticava per abbastanza tempo e abbastanza profondamente, sospettava, si finiva presto per non sentire più niente.
A quel punto il sonno lo colse senza che se ne accorgesse.
Stava camminando…
Stava camminando in una stanza più grande di una città, e ovunque guardasse vedeva statue e figure rozzamente intagliate. Era in piedi accanto a una statua dalle sembianze femminili: i seni nudi scendevano penduli, intorno alla vita aveva una catena di mani tagliate, impugnava due coltelli affilati e al posto della testa le spuntavano due serpenti identici che si fronteggiavano, i corpi inarcati, pronti ad attaccarsi. C’era qualcosa di violentemente, profondamente sbagliato in quella statua, qualcosa che lo fece arretrare.
Cominciò ad attraversare l’ingresso. Gli occhi intagliati delle statue dotate di occhi sembravano seguire ogni sua mossa.
Nel sogno si rendeva conto che davanti a ogni statua era scritto, sul pavimento, il nome in lettere ardenti. L’uomo con i capelli bianchi e una collana di denti al collo, che teneva un tamburo, era Leucotios, la donna dai fianchi possenti che perdeva mostri dalla grande fenditura tra le gambe era Hubur, l’uomo con la testa d’ariete che reggeva la palla d’oro Hershef.
Nel sogno una vocetta puntigliosa gli parlò, ma Shadow non riuscì a vedere nessuno. «Ci sono dèi che sono stati dimenticati, e ormai potrebbero anche essere morti. Li si può trovare soltanto dentro antiche storie. Sono scomparsi, tutti scomparsi, ma ci rimangono i loro nomi e le loro effigi.»
Shadow svoltò un angolo e capì di essere in un’altra stanza, ancora più grande della prima. Era sconfinata. Vicino a lui c’era il cranio di un mammut, scuro e lucido, e un mantello peloso color ocra, indossato da una donna minuscola che aveva la mano sinistra deforme. Accanto a lei c’erano altre tre donne scolpite nello stesso blocco di granito e unite alla vita: le loro facce sembravano appena abbozzate, incomplete, mentre invece seni e genitali erano stati realizzati con cura particolareggiata, e c’era un uccello incapace di volare che Shadow non riconosceva, alto due volte lui, con un becco come quello di un avvoltoio ma braccia umane, e così via all’infinito.
La voce parlò ancora, come se si rivolgesse a una scolaresca, e disse: «Vi sono dèi usciti dalla memoria. Perfino i loro nomi si sono persi. I popoli che li adoravano sono stati dimenticati. I loro idoli sono stati distrutti e umiliati da tempo immemorabile. I loro ultimi sacerdoti sono morti senza tramandare i segreti.
«Gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle».
Un mormorio cominciò a diffondersi nella sala, un sussurro che nel sogno provocò a Shadow una paura inspiegabile, che gli raggelò il sangue nelle vene. Sprofondò nel panico totale, lì in quella sala degli dèi la cui esistenza era stata dimenticata, dèi con facce da polpo e dèi che erano nient’altro che mani mummificate o pietre che cadevano o foreste incendiate…