Shadow si svegliò con il cuore che picchiava come un martello pneumatico, la fronte madida di sudore, all’erta. I numeri rossi sull’orologio del comodino segnavano l’una e tre minuti. L’insegna del Motel America brillava attraverso la finestra. Disorientato, Shadow si alzò ed entrò nel minuscolo bagno. Pisciò senza accendere la luce e tornò in camera. Il sogno era ancora vivido nel ricordo, anche se non avrebbe saputo dire che cosa l’avesse tanto spaventato.
Nella stanza entrava una luce fioca, ma i suoi occhi erano abituati all’oscurità. Seduta sul bordo del letto c’era una donna.
Shadow la conosceva. L’avrebbe riconosciuta tra mille, tra un milione. Indossava ancora il tailleur blu scuro con cui l’avevano seppellita.
Parlò in un sussurro, ma era un sussurro familiare. «Immagino che vorrai sapere che cosa ci faccio qui» disse Laura.
Shadow non fiatò.
Una volta che si fu seduto sull’unica sedia domandò: «Sei tu?».
«Sì» rispose lei. «Ho freddo, cucciolo.»
«Sei morta, piccola.»
«Sì. Sì. Morta.» Batté sul letto accanto a sé. «Vieni qui vicino.»
«No» rispose Shadow. «Resto dove sono, per il momento. Dobbiamo ancora affrontare alcuni problemi in sospeso.»
«Tipo che io sono morta.»
«Per esempio, ma adesso stavo pensando soprattutto al modo in cui sei morta. A te e Robbie.»
«Oh» disse lei. «Quello.»
A Shadow sembrava di sentire — o forse, pensò, immaginava di sentire — un odore di putrefazione, di fiori e sostanze conservanti. Sua moglie — la sua ex moglie… no, si corresse, la sua defunta moglie — lo guardava imperturbabile, seduta sul bordo del letto.
«Cucciolo» disse. «Potresti… credi di potermi procurare una sigaretta?»
«Credevo che avessi smesso.»
«Infatti. Ma ormai non mi preoccupo più dei rischi per la salute. Penso che mi calmerebbe. Nell’atrio c’è un distributore.»
Shadow si infilò jeans e maglietta e a piedi nudi andò nell’atrio dell’albergo. Il portiere del turno di notte era un uomo di mezza età intento a leggere un libro di John Grisham. Shadow comperò un pacchetto di Virginia Slim e chiese una scatola di fiammiferi al portiere.
«Lei dorme in una stanza per non fumatori» gli disse l’uomo. «Si ricordi di aprire la finestra.» Gli diede i fiammiferi e un portacenere di plastica con il logo del Motel America.
«Va bene» rispose Shadow.
Tornò in camera. Laura si era sdraiata sopra le coperte gualcite. Shadow aprì la finestra, poi le diede sigarette e fiammiferi. Aveva le dita fredde. Quando si accese una sigaretta lui vide che le sue unghie, solitamente immacolate, erano rotte e rosicchiate, sporche di fango. Laura inspirò, soffiò sul fiammifero per spegnerlo, inspirò di nuovo. «Non riesco a sentire il gusto. Credo che non funzioni.»
«Mi dispiace» disse lui.
«Anche a me.»
Quando Laura inspirava, la sigaretta diventava incandescente, e lui riusciva a vederla in faccia.
«E così ti hanno fatto uscire.»
«Sì.»
La punta della sigaretta si arroventò, arancione. «Ti sono ancora grata. Non avrei mai dovuto coinvolgerti.»
«Be’» disse lui, «io avevo acconsentito. Avrei potuto rifiutarmi.» Si domandò perché non avesse paura di lei, perché il sogno di un museo lo lasciasse in preda al terrore mentre con un cadavere ambulante se la cavava benissimo.
«Sì» disse lei. «Avresti potuto dire di no, imbranatone mio.» Era avvolta nelle volute di fumo. Era molto bella, in quella luce fioca. «Vuoi sapere di me e Robbie?»
«Perché no?»
Lei spense la sigaretta nel posacenere. «Tu eri dentro. E io avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Di una spalla su cui piangere. Tu non c’eri. Io ero infelice.»
«Mi dispiace.» Shadow si rese conto che nella voce di Laura c’era qualcosa di diverso, e cercò di capire che cosa fosse.
«Lo so. Così ci incontravamo ogni tanto per bere un caffè. Per parlare di quello che avremmo fatto al tuo ritorno. Di quanto sarebbe stato bello rivederti. Gli piacevi davvero. Non vedeva l’ora di ridarti il tuo vecchio impiego.»
«Sì.»
«E poi Audrey è andata a trovare sua sorella e si è fermata una settimana. Questo è successo, direi, un anno o tredici mesi dopo il tuo arresto.» La sua voce era inespressiva, le parole suonavano incolori, monotone, come sassolini lasciati cadere, a uno a uno, dentro un pozzo profondo. «Robbie è venuto da me. Ci siamo ubriacati. Lo abbiamo fatto sul pavimento della camera da letto. Non è stato male. Non è stato niente male.»
«Questo potevi risparmiarmelo.»
«Ah sì? Scusa. È più difficile trovare le parole giuste, da morti. È come una fotografia, sai. Non sembra più così importante.»
«Per me lo è.»
Laura si accese un’altra sigaretta. Si muoveva in maniera fluida e precisa, per niente rigida. Per un istante Shadow si chiese se fosse davvero morta. Forse era un complicato trucco di qualche tipo a suo danno. «Sì» riprese lei. «Capisco. Be’, la nostra relazione — anche se non la chiamavamo così, non la chiamavamo in nessun modo, a essere sinceri — è durata quasi due anni.»
«Mi avresti lasciato per lui?»
«Perché mai avrei dovuto fare una cosa simile? Tu sei il mio grosso orso. Il mio cucciolo. Tu hai fatto quello che hai fatto, per me. Ho aspettato il tuo ritorno per tre anni. Ti amo.»
Shadow si trattenne dal dirle: ti amo anch’io. Non gliel’avrebbe detto. Non più. «Allora che cos’è successo, l’altra notte?»
«Quando mi hanno ammazzata?»
«Sì.»
«Be’, io e Robbie eravamo usciti per parlare della festa a sorpresa per il tuo benvenuto. Sarebbe stato meraviglioso. E gli ho detto che tra noi era finita. Avevamo chiuso. Adesso che eri fuori doveva per forza essere così.»
«Mmm. Grazie, piccola.»
«Non c’è di che, caro.» Un sorriso spettrale la illuminò. «Abbiamo preso una piega sdolcinata. Era carino. Abbiamo fatto gli stupidi. Io ero ubriaca persa. Lui no. Doveva guidare. Stavamo tornando a casa quando gli ho comunicato che volevo fargli un pompino d’addio, per l’ultima volta, con passione, e così gli ho abbassato la cerniera dei pantaloni e ho cominciato a darmi da fare.»
«Un grave errore.»
«Non dirlo a me. Con la spalla ho toccato il cambio e Robbie ha cercato di liberarsi di me per rimettere dentro la marcia ma stavamo già sbandando e si è sentito un forte botto e ricordo di aver pensato, mentre il mondo mi vorticava intorno, "sto per morire". Spassionatamente. Me lo ricordo bene. Non ero spaventata. Poi non ricordo più niente.»
C’era odore di plastica bruciata, nella stanza. La sigaretta, pensò Shadow, che era bruciata fino al filtro. Laura non sembrava essersene accorta.
«Cosa ci fai qui?»
«Una moglie non può venire a trovare suo marito?»
«Tu sei morta. Sono venuto al tuo funerale questo pomeriggio.»
«Sì.» Laura fissò nel vuoto senza parlare. Shadow si alzò e le si avvicinò. Le prese la sigaretta consumata tra le dita e la gettò dalla finestra.
«Dunque?»
Laura lo guardò negli occhi. «Non so molto più di quello che sapevo da viva. La maggior parte delle cose che so e che non sapevo da viva non riesco a tradurle in parole.»
«Generalmente i morti stanno nelle tombe» disse Shadow.
«Lo credi? Lo credi davvero, cucciolo?» Si alzò dal letto per avvicinarsi alla finestra. Alla luce dell’insegna del motel il suo viso era bello come sempre. Era il viso della donna per cui era finito dentro.
Il cuore gli faceva male, come se qualcuno glielo stesse stringendo nel pugno. «Laura…?»
Lei non lo guardò. «Ti sei fatto coinvolgere in una brutta storia, Shadow. Ti metterai nei guai, se nessuno ti protegge. Ti proteggerò io. E grazie del regalo.»