«Quale regalo?»
Lei infilò una mano nella tasca della camicetta e prese la moneta d’oro che poche ore prima lui aveva gettato nella tomba. Era ancora sporca di terra. «Forse la metterò in una catenina. Sei stato gentile.»
«Figurati.»
A quel punto lei si voltò e lo guardò con occhi che sembravano vederlo e al tempo stesso non vederlo. «Credo che ci siano parecchi aspetti del nostro matrimonio su cui dobbiamo lavorare.»
«Piccola» le disse, «sei morta.»
«Questo è uno degli aspetti, ovviamente.» Si interruppe, poi disse: «D’accordo. Adesso vado. Sarà meglio». E con naturalezza e disinvoltura si girò e gli appoggiò le mani sulle spalle, poi si alzò in punta di piedi e lo salutò con un bacio, come faceva sempre.
Lui si chinò goffamente per baciarla sulla guancia, ma lei spostò la testa in modo da incontrare le sue labbra. Il suo alito puzzava leggermente di naftalina.
Gli fece saettare la lingua in bocca. Era fredda, e asciutta, e sapeva di sigaretta e di bile. Se Shadow aveva avuto qualche dubbio sul fatto che sua moglie fosse davvero morta, adesso non ne aveva più.
Si tirò indietro.
«Ti amo» disse lei con semplicità. «Ti terrò d’occhio.» Si avviò verso la porta. A Shadow era rimasto in bocca uno strano sapore. «Cerca di dormire un po’, cucciolo. E tieniti alla larga dai guai.»
Aprì la porta. All’inclemente neon del corridoio Laura sembrava molto morta, però è vero che il neon fa quell’effetto su tutti.
«Avresti potuto chiedermi di passare la notte con te» disse lei nel suo tono distaccato.
«Non credo che ci riuscirei» rispose Shadow.
«Ci riuscirai, dolcezza, prima che tutto sia finito. Lo farai.» Poi si voltò e imboccò il corridoio.
Shadow si affacciò a guardare. Il portiere di notte continuò a leggere il romanzo di John Grisham senza quasi alzare gli occhi, quando lei gli passò davanti. Attaccato alle scarpe di Laura c’era il fango del cimitero. Poi sparì.
Shadow fece un lungo sospiro. Il cuore gli batteva forte e irregolare. Superò l’atrio e bussò alla porta di Wednesday. Mentre bussava provò la strana sensazione di essere colpito da un paio di ali nere, come se un enorme corvo l’avesse attraversato in volo per percorrere il corridoio ed entrare nel mondo che si trovava dall’altra parte.
Wednesday aprì la porta. Era nudo, salvo che per un asciugamano dell’albergo avvolto intorno ai fianchi. «Che cosa diavolo vuoi?» chiese.
«Ti devo dire una cosa» rispose Shadow. «Forse era un sogno — ma non lo era — o forse ho inalato un po’ di quel fumo di pelle di rospo sintetica del ciccione, o probabilmente sto diventando matto…»
«Va bene, va bene. Sputa» disse Wednesday. «Sono in mezzo a una faccenda.»
Shadow gettò un’occhiata dentro la stanza. Nel letto c’era qualcuno che lo osservava. Il lenzuolo tirato per coprire i piccoli seni. I capelli biondo chiaro, qualcosa di topesco nei tratti. Abbassò la voce. «Ho appena visto mia moglie» disse. «Era in camera mia.»
«Intendi un fantasma? Hai visto un fantasma?»
«No. Non un fantasma. Era lei, in carne e ossa. È morta stecchita ma non era un fantasma. L’ho toccata. Mi ha baciato.»
«Capisco.» Wednesday gettò un’occhiata alla donna nel letto. «Torno subito, cara.»
Attraversarono l’atrio fino alla camera di Shadow. Wednesday accese le luci. Guardò il mozzicone rimasto nel portacenere. Si grattò il petto. Aveva i capezzoli scuri, capezzoli da vecchio, e i peli sul petto erano brizzolati. Su un fianco c’era una lunga cicatrice chiara. Annusò l’aria. Poi scrollò le spalle.
«D’accordo» disse. «Allora la tua defunta moglie si è presentata qui. Hai paura?»
«Un po’.»
«Molto saggio. I defunti mi fanno sempre una fifa blu. C’è dell’altro?»
«Sono pronto a partire. Dell’appartamento e del resto si può occupare la madre di Laura. Comunque mi detesta. Quando vuoi partire io sono pronto.»
Wednesday sorrise. «Ottima notizia, ragazzo mio. Lasciamo Eagle Point domattina. Adesso cerca di dormire. Ho dello scotch in camera, se ti può far comodo. Ne vuoi?»
«No. Me la cavo.»
«Allora non disturbarmi più. Mi aspetta una lunga notte.»
«Divertiti» disse Shadow.
«Lo spero» rispose Wednesday, e uscendo si chiuse la porta alle spalle.
Shadow sedette sul bordo del letto. L’odore di fumo e conservanti indugiava ancora nell’aria. Avrebbe desiderato piangere sua moglie, gli sembrava più appropriato che esserne turbato o, adesso che se n’era andata poteva ammetterlo, addirittura spaventato. Era arrivato il momento di piangerla. Spense le luci, si sdraiò e pensò a com’era lei, prima che lui andasse in prigione. Ricordò il loro matrimonio quand’erano giovani e felici, sciocchi e incapaci di non mettersi le mani addosso.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva pianto, così tanto tempo che Shadow non ricordava più come si facesse. Non aveva pianto nemmeno quando era morta sua madre.
Ma all’improvviso iniziò a piangere, con singhiozzi aspri e dolorosi, e per la prima volta da quando non era più un bambino pianse tanto da addormentarsi.
L’arrivo in America
823 d.C.
Navigarono le verdi acque facendosi guidare dalle stelle e dalla costa, e quando la costa fu soltanto un ricordo lontano e il cielo notturno coperto di nubi navigarono guidati dalla fede, e invocarono il Padre Universale perché li conducesse ancora una volta al sicuro sulla terraferma.
Fu un viaggio cattivo, avevano le mani intorpidite e un tremito nelle ossa che nessun vino riusciva a placare. Al mattino si svegliavano con la barba coperta di brina e fino a quando il sole non veniva a riscaldarli sembravano vecchi imbiancati anzitempo.
Stavano già perdendo i denti e avevano gli occhi infossati nelle orbite quando trovarono approdo sulla terra verdeggiante di Occidente. Gli uomini dissero: «Siamo lontani, lontani dalle nostre case, dai focolari, lontani dai mari che conosciamo e dalle terre che amiamo. Qui al confine del mondo i nostri dèi ci dimenticheranno».
Il capo si arrampicò in cima a una grande roccia e li schernì per la loro mancanza di fede. «Il Padre Universale ha creato il mondo» gridò. «Lo ha fatto con le sue mani dalle ossa e dalla cenere di Ymir, suo nonno. Ha messo il cervello di Ymir nel cielo per farne nubi, e il suo sangue salato è diventato il mare che abbiamo attraversato. Non vi rendete conto che se ha creato il mondo ha creato anche questa terra? E che se in questa terra moriremo da uomini verremo accolti nella sua dimora?»
E gli uomini lo acclamarono ed esultarono. Con tronchi e fango si dedicarono volonterosamente alla costruzione di una sala circondata da una palizzata di legni appuntiti, anche se, a quanto ne sapevano, erano i soli ad abitare la nuova terra.
Il giorno in cui finirono di costruirla scoppiò un temporale: a mezzogiorno il cielo divenne nero come la notte, squarciato da saette di fuoco bianco, e i tuoni erano tanto fragorosi da assordare, e il gatto di bordo che avevano portato per attirare la fortuna andò a nascondersi sotto la nave arenata sulla spiaggia. Il temporale era così violento che gli uomini scoppiarono a ridere, e battendosi gran pacche sulle spalle l’un l’altro dissero: «Il signore del tuono è con noi, in questa terra lontana» e levarono grazie, e si rallegrarono e bevettero fino a ubriacarsi.
Nella dimora fumosa quella notte il bardo cantò le canzoni antiche. Cantò di Odino, Padre Universale, che si era sacrificato a se stesso con il coraggio e la nobiltà con cui gli altri venivano sacrificati a lui. Cantò dei nove giorni che il Padre Universale trascorse appeso all’albero del mondo, il sangue grondante dalla ferita nel fianco provocata dalla punta della lancia, e cantò per loro tutto ciò che il Padre Universale aveva imparato durante l’agonia: nove nomi, nove rune, e incantesimi per due volte nove. Quando narrò della lancia che ferì Odino nel fianco, il bardo gridò di dolore insieme a lui e gli uomini tutti rabbrividirono, nell’immaginare la sua pena.