«No» disse Shadow.
«Mi sono trovato un lavoro al macello. Al mattatoio. Quando i manzi salivano la rampa trovavano me, l’abbattitore. Sai perché ci chiamano abbattitori? Perché prendiamo la mazza e abbattiamo la vacca. Pum! Ci vuole forza nelle braccia. Capisci? Poi l’incatenatore incatena il manzo, lo tira su e gli taglia la gola. Prima di mozzargli la testa lo fanno dissanguare. Noi eravamo i più forti, noi abbattitori.» Alzò la manica dell’accappatoio flettendo l’avambraccio per mettere in mostra i muscoli ancora visibili sotto la pelle cascante. «La forza però non basta. Ci vuole arte. Arte nel colpire. Altrimenti la vacca rimane solo stordita, o si arrabbia. Poi negli anni Cinquanta ci hanno dato le pistole a chiodi. Gliele puntavi in mezzo alla fronte, pum, pum! Dirai che così sono capaci tutti. Ma non è vero.» Mimò il gesto di conficcare un chiodo di metallo nella testa di una mucca. «Ci vuole abilità.» Sorrise al ricordo, mettendo in mostra un dente color ferro.
«Non cominciare con le tue storie di quando uccidevi le mucche.» Utrennjaja Zarja servì il caffè in piccole tazze smaltate a colori vivaci su un vassoio di legno rosso. Diede a ciascuno una tazza e poi sedette accanto a Chemobog.
«Vechernjaja Zarja è andata a fare la spesa. Tornerà subito.»
«L’abbiamo incontrata davanti al portone» disse Shadow. «Ci ha detto che legge il futuro.»
«Sì» rispose la sorella. «Al crepuscolo, il momento più adatto per le bugie. Io non riesco a dirle bene, quindi sono una pessima indovina. E nostra sorella Polunochnaja Zarja non sa dirle del tutto.»
Il caffè era più dolce e più forte di quanto Shadow si sarebbe aspettato.
Chiese di poter usare il bagno, una stanzetta poco più grande di un armadio con appese ai muri alcune vecchie fotografie incorniciate di uomini e donne in rigide pose vittoriane. Dal salotto sentiva arrivare voci concitate. Si lavò le mani con l’acqua ghiacciata e una scaglia di sapone rosa dall’odore disgustoso.
Quando uscì dal bagno trovò Chernobog nel corridoio.
«Tu porti solo guai!» stava gridando. «Nient’altro che guai! Non voglio stare a sentire! Vattene da casa mia!»
Wednesday era ancora seduto sul divano e sorseggiava il caffè accarezzando il gatto grigio. In piedi sul tappeto consunto Utrennjaja Zarja si attorcigliava nervosamente i lunghi capelli biondi.
«C’è qualche problema?» chiese Shadow.
«Lui è il problema!» gridò Chernobog. «Lui! Digli che niente potrebbe convincermi ad aiutarlo! Voglio che se ne vada! Voglio che esca di qui! Andatevene tutti e due!
«Per favore» implorò Utrennajaja Zarja. «Per favore fate piano, altrimenti sveglierete Polunochnaja Zarja.»
«E tu sei uguale a lui, vuoi che lo sostenga nella sua follia» strillò Chernobog. Sembrava che stesse per piangere. Una lunga colonnetta di cenere cadde dalla sua sigaretta sul tappeto logoro del corridoio.
Wednesday si alzò e gli si avvicinò. Gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ascoltami» disse conciliante. «Prima di tutto non è una follia. È l’unica via. Secondo, ci saranno tutti. Non vorrai essere lasciato fuori, no?»
«Tu sai chi sono» rispose Chernobog. «Sai quello che hanno fatto queste mani. Tu vuoi mio fratello, non me. E mio fratello non c’è.»
Si aprì una porta e un’assonnata voce femminile chiese: «Cosa succede?».
«Niente, sorella mia» rispose Utrennjaja Zarja. «Torna a dormire.» Poi si rivolse a Chernobog. «Hai visto? Hai visto cos’hai fatto con tutto quel gridare? Torna in salotto e siediti. Siediti!» Chernobog sembrava intenzionato a protestare ma di colpo la rabbia gli passò. Aveva un’aria fragile, all’improvviso, fragile e solitaria.
I tre uomini rientrarono nel salotto fatiscente. Nella stanza aleggiava uno scuro anello di nicotina che si fermava a trenta centimetri dal soffitto, come la riga di sporcizia in una vecchia vasca da bagno.
«Non devi farlo necessariamente per te» disse Wednesday imperturbabile. «Se lo fai per tuo fratello ci guadagni anche tu. In questo voi tipi dualistici siete nettamente superiori a noi, non è così?»
Chernobog non parlò.
«A proposito di Bielebog, hai avuto sue notizie?»
L’altro scosse la testa. Guardò Shadow. «Hai fratelli?»
«No. Non che io sappia.»
«Io ne ho uno. Dicono che insieme siamo una persona sola, sai? Quand’eravamo giovani i suoi capelli erano biondissimi, gli occhi celesti, e la gente diceva che lui era quello bravo. E i miei capelli erano scuri, forse più scuri dei tuoi, e la gente diceva che ero la canaglia, hai capito? Il cattivo ero io. E adesso il tempo passa e ho i capelli grigi. Anche i suoi sono grigi, credo. E guardandoci non sapresti più riconoscere il chiaro dall’oscuro.»
«Eravate molto uniti?» chiese Shadow.
«Uniti?» ripeté Chernobog. «No. Come avremmo potuto? Ci interessavano cose molto diverse.»
Dal fondo del corridoio arrivò un gran frastuono e Vechernjaja Zarja fece il suo ingresso. «Tra un’ora si mangia» annunciò. Poi scomparve.
Chernobog sospirò. «Crede di essere una buona cuoca. Ma cucinavano i domestici, a casa sua. Adesso non c’è nessuno. Non c’è niente.»
«Non dire mai che non c’è niente» intervenne Wednesday. «Non dirlo mai.»
«Smettila. Non voglio ascoltarti.» Si rivolse a Shadow. «Giochi a dama?»
«Sì.»
«Bene. Allora fai una partita» disse prendendo una scatola di legno dalla mensola del camino e rovesciando le pedine sul tavolo. «I neri a me.»
Wednesday sfiorò un braccio di Shadow. «Non sei obbligato» disse.
«Non c’è problema. Gioco volentieri». Wednesday scrollò le spalle e da un mucchietto di riviste ingiallite sul davanzale della finestra prese un vecchio numero del "Reader’s Digest".
Chernobog finì di sistemare le pedine con le sue dita scure e il giocò cominciò.
Nei giorni seguenti a Shadow capitò spesso di ricordare quella partita. Certe notti la sognò. I suoi pezzi, rotondi e piatti, bianchi, in teoria, avevano il colore del legno vecchio e sporco. Quelli di Chernobog erano di un nero opaco e sbiadito. Mosse per primo. Nei suoi sogni non conversavano, giocando, si sentiva solo il sonoro clic delle pedine che venivano appoggiate, o il fruscio di legno contro legno quando venivano spostate di una casella.
Per le prime cinque o sei mosse i due giocatori avanzarono verso il centro della damiera, lasciando intatte le linee di base. C’erano lunghe pause tra una mossa e l’altra, come durante una partita a scacchi, mentre i due giocatori osservavano e riflettevano.
Shadow aveva giocato a dama in prigione: serviva a far passare il tempo. Aveva giocato anche a scacchi, ma gli mancava la capacità di impostare una tattica. Preferiva improvvisare cercando di fare la mossa giusta al momento giusto. A volte in questo modo si riesce a vincere, a dama.
Si sentì un clic quando Chernobog afferrò una pedina nera e si mangiò una bianca. Poi l’appoggiò sul tavolino, accanto alla damiera.
«La prima vittima. Hai già perso» disse. «La partita è finita.»
«No» rispose Shadow. «La fine è ancora lontana.»
«Non vorresti fare una puntatina, in questo caso? Scommettere qualcosa per renderla più interessante?»
«No» si intromise Wednesday senza alzare gli occhi dalla pagina delle barzellette da caserma, «non vuole.»
«Non sto giocando con te, vecchio. Gioco con lui. Allora, vuoi scommettere, signor Shadow?»