«Di che cosa stavate discutendo voi due, prima?»
Chernobog aggrottò la fronte rugosa. «Il tuo padrone vuole che vada con lui. Per aiutarlo nella sua follia. Piuttosto morto.»
«Vuole scommettere? D’accordo. Se vinco io viene con noi.»
Il vecchio arricciò le labbra. «Possibile» disse, «ma solo se accetti di pagare pegno, in caso di sconfitta.»
«E quale sarebbe, il pegno?»
Chernobog rimase imperturbabile. «Se vinco io ti fracasso la testa. Con la mazza. Prima ti metti in ginocchio. Poi ti abbatto con un colpo in mezzo alla fronte e tu non ti rialzi più.» Shadow lo guardò cercando di decifrarne il volto. Non stava scherzando, di questo era certo: nella sua espressione c’era qualcosa di famelico, brama di dolore, o morte, o punizione.
Wednesday chiuse la rivista. «È ridicolo. Ho fatto male a venire qui. Shadow, ce ne andiamo.» Il gatto grigio, importunato, si alzò dal divano e andò sul tavolino, accanto alla scacchiera. Fissò i pezzi, poi saltò sul pavimento e uscì dalla stanza con la coda ritta.
«No» disse Shadow. Non aveva paura di morire. Dopotutto non è che avesse una buona ragione per vivere. «Mi sta bene. Accetto. Se vince lei ha la possibilità di fracassarmi il cranio con un colpo di mazza» e mosse una pedina sulla casella accanto al bordo della damiera.
Non c’era altro da aggiungere, tuttavia Wednesday non riprese a leggere il "Reader’s Digest". Rimase a osservare la partita con l’occhio di vetro e l’occhio buono, e un’espressione che non lasciava trapelare niente.
Chernobog si mangiò un altro bianco. Shadow due neri. Dal corridoio arrivavano gli odori di una cucina sconosciuta. Benché non fossero tutti stuzzicanti Shadow si rese improvvisamente conto di essere molto affamato.
I due uomini muovevano i loro pezzi, a turno. Un sacco di pedine mangiate, una fioritura di dame: non più costrette a muoversi solo in avanti, una casella alla volta, le dame potevano andare in ogni direzione, il che le rendeva doppiamente pericolose. Erano arrivati alla linea di base della damiera e adesso potevano andare ovunque. Chernobog ne aveva tre, Shadow due.
Chernobog mosse una dama mangiandosi tutte le pedine dell’avversario mentre con le altre due gli teneva bloccate le sue.
E poi ne conquistò una quarta e senza sorridere si mangiò le due dame di Shadow. La partita era finita.
«Allora» disse, «ti posso fracassare il cranio. E tu ti metterai in ginocchio senza fare storie. Bene.» Allungò una mano e batté una pacca sul braccio di Shadow.
«C’è ancora tempo, prima di cena» disse Shadow. «Vuole farne un’altra? Alle stesse condizioni?»
Chernobog si accese una sigaretta con un fiammifero da cucina. «Come, alle stesse condizioni? Vuoi che ti uccida due volte?»
«Al momento lei dispone di un colpo solo. Mi ha detto lei stesso che non si tratta soltanto di forza, che ci vuole soprattutto abilità. Così se vince anche questa volta ha a disposizione due colpi.»
Chernobog lo guardò torvo. «Ne basta uno, uno solo. In questo consiste l’arte.» Si batté sull’avambraccio destro, dov’erano i muscoli, con la mano sinistra, spargendo cenere dappertutto.
«È passato tanto tempo. Se avesse perso l’abilità mi potrebbe ferire e basta. Quand’è stata l’ultima volta che ha tirato un colpo di mazza al mattatoio? Trent’anni fa? Quaranta?»
Chernobog non disse niente. La bocca chiusa era un taglio grigio nella faccia. Tamburellò le dita sul tavolino di legno, a ritmo. Poi rimise i ventiquattro pezzi al loro posto sulla damiera.
«Gioca» disse. «Tu hai ancora i chiari. Io gli scuri.»
Shadow fece la prima mossa. Chernobog rispose e Shadow capì che l’altro avrebbe ripetuto lo stesso schema di gioco della partita appena vinta, e che quello era il suo limite.
Allora giocò in maniera avventata. Approfittando di ogni opportunità che gli si presentava, oppure muovendo senza riflettere, senza fermarsi a pensare. E questa volta giocando sorrideva; e ogni volta che toccava a Chernobog il suo sorriso diventava più largo.
Di lì a poco Chernobog cominciò a muovere le pedine bruscamente, picchiandole sul tavolo con tanta forza da far tremare quelle rimaste sulle caselle nere.
«Ecco» disse prendendo una pedina di Shadow con fracasso e mettendo giù la nera con un tonfo. «Ecco. Cosa te ne pare?»
Shadow non rispose: si limitò a sorridere e soffiò la pedina che Chernobog aveva appena mosso, poi un’altra e un’altra ancora, e una quarta, spazzando via tutte le nere dal centro della damiera. Prese una pedina bianca dal mucchietto sul tavolo e fece la sua dama.
Dopo di che rastrellò le pedine restanti in poche mosse e la partita era finita.
«Facciamo la bella?»
Chernobog lo fissò, gli occhi grigi come aculei di acciaio. Poi rise, battendogli grandi pacche sulle spalle. «Tu mi piaci!» esclamò. «Hai le palle.»
In quel momento Utrennjaja Zarja infilò la testa in salotto per dire che la cena era pronta e che dovevano sgomberare il tavolo e stendere la tovaglia.
«Non abbiamo una sala da pranzo» disse. «Mi dispiace. Mangiamo qui.»
I piatti di portata furono sistemati sul tavolino e ciascuno dei commensali venne dotato di un vassoietto di legno smaltato su cui erano appoggiate le posate annerite da tenere sulle ginocchia.
Vechernjaja Zarja prese cinque scodelle e mise dentro ciascuna una patata bollita con la buccia su cui versò un’abbondante porzione di borsch dal violento color cremisi. Aggiunse un cucchiaio di panna acida in ogni scodella e le servì.
«Credevo che fossimo in sei» disse Shadow.
«Polunochnaja Zarja dorme ancora» disse Vechernjaja Zarja. «Le teniamo la cena in frigorifero. Mangerà quando si alza.»
Nel borsch c’era troppo aceto, sembrava di mangiare barbabietole in salamoia. La patata bollita era farinosa.
Per secondo c’era un brasato coriaceo accompagnato da verdure non meglio identificate, bollite così a lungo e in modo così efficace che nessuno, nemmeno con il più grande sforzo di immaginazione, le avrebbe potute riconoscere, essendo praticamente ridotte in poltiglia.
Poi c’erano foglie di verza stufate con carne macinata e riso, foglie talmente dure da non poter essere tagliate senza spargere carne e riso su tutto il tappeto. Shadow spostò la sua nel piatto senza mangiarne.
«Abbiamo giocato a dama» disse Chernobog servendosi un altro blocchetto grumoso di brasato. «Io e il giovanotto. Lui ha vinto una partita. Io ne ho vinto un’altra. Siccome ha vinto vado con lui e Wednesday, e li aiuto nella loro follia. E siccome ho vinto anch’io, quando sarà tutto finito potrò ucciderlo con un colpo di mazza.»
Le due Zarja annuirono gravemente. «Un vero peccato» commentò Vechernjaja Zarja rivolgendosi a Shadow. «Se ti avessi letto la sorte avrei previsto per te una lunga vita felice, con molti figli.»
«È per questo che sei brava a leggere il futuro» disse Utrennjaja Zarja. Aveva un’aria assonnata, come se restare sveglia fino a quell’ora le costasse uno sforzo. «Sei la più brava a dire bugie.»
Finito di mangiare, Shadow aveva ancora fame. Il cibo che gli davano in carcere, pur pessimo, era sempre meglio di questo.
«Ottimo» disse Wednesday dopo aver ripulito il piatto con palese soddisfazione. «Vi ringrazio, gentili signore. E ora temo che il dovere ci imponga di chiedervi di indicarci un buon albergo nei dintorni.»
Vechernjaja Zarja assunse un’aria offesa. «Perché mai andare in albergo? Non siamo forse tuoi amici?»
«Non vorrei disturbare…» disse Wednesday.
«Nessun disturbo» intervenne Utrennjaja Zarja sbadigliando e giocherellando con quei suoi capelli dal biondo tanto incongruo.
«Tu puoi dormire nella stanza di Bielebog» disse Vechernjaja Zarja, indicando Wednesday. «È vuota. In quanto a te, giovanotto, ti preparerò il letto sul divano. Starai più comodo che in un letto di piume. Lo giuro.»