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L’Iceman aveva le dimensioni e la forma di un distributore di Coca-Cola, gli occhi azzurri e i capelli così biondi da sembrare bianchi. Aveva pestato a sangue un tizio colpevole di aver dato una palpatina alla sua ragazza nel locale dove lei ballava e lui faceva il buttafuori. Gli amici del tizio avevano chiamato la polizia che dopo aver arrestato l’Iceman aveva scoperto che diciotto mesi prima lui non era rientrato in carcere da un permesso di lavoro.

«Che cosa dovevo fare?» aveva chiesto addolorato raccontando a Shadow la sua triste storia. «Gliel’avevo detto che era la mia ragazza. Dovevo lasciare che mi mancasse di rispetto? Eh? Dovevo lasciarglielo fare? Cioè, cazzo, le stava mettendo le mani dappertutto.»

«Vai a spiegarglielo» aveva risposto Shadow, senza aggiungere altro. Aveva capito subito che in prigione ognuno sconta la sua pena e cerca di farsi gli affari suoi.

Non ti mettere nei guai. Sconta la tua pena e tieni duro.

Qualche mese prima Lyesmith gli aveva prestato una logora edizione economica delle Storie di Erodoto. «Non è noioso. È forte» gli aveva detto quando Shadow aveva dichiarato che non leggeva libri. «Leggitelo, e poi mi dici com’è.»

Shadow aveva cominciato a leggerlo anche se controvoglia e, suo malgrado, se n’era appassionato.

«Greci» aveva concluso l’Iceman con disgusto. «E quello che dicono su di loro non è neanche vero. Quando ho provato a metterglielo nel culo la mia ragazza mi ha quasi cavato gli occhi.»

Un giorno, senza preavviso, Lyesmith era stato trasferito. Aveva lasciato a Shadow il libro di Erodoto. Nascosta tra le pagine c’era una moneta da cinque centesimi. Le monete erano vietate, in prigione; potevi affilarne i bordi e aprire la faccia a qualcuno, in una rissa. Shadow non voleva un’arma, voleva solo qualcosa per tenere le mani occupate.

Non era superstizioso. Credeva solo in quello che vedeva, però da qualche settimana sentiva la catastrofe aleggiare sopra la prigione con la stessa precisione con cui l’aveva sentita nei giorni precedenti la rapina. Nello stomaco un senso di vuoto che doveva essere la paura di tornare nel mondo, si ripeteva, ma non ne era sicuro. Era più paranoico della sua media, e in galera la media è molto alta perché è l’arte della sopravvivenza. Era diventato più quieto, più ombroso che mai. Si scoprì a studiare il linguaggio del corpo dei secondini e degli altri detenuti in cerca di un indizio della catastrofe che stava per abbattersi, perché non aveva dubbi, stava per abbattersi.

Mancava un mese alla sua scarcerazione. Era seduto in un ufficio freddo davanti a un uomo di bassa statura con una voglia di vino sulla fronte. L’uomo dall’altra parte della scrivania aveva la pratica aperta sotto il naso e teneva in mano una penna a sfera. L’estremità della penna era stata orribilmente rosicchiata.

«Hai freddo, Shadow?»

«Sì. Un po’.»

L’uomo scrollò le spalle. «È il regolamento. Il riscaldamento non si accende fino al primo di dicembre. Si spegne il primo di marzo. Non lo faccio io, il regolamento.» Sfiorò con l’indice il foglio fissato con le graffette nel raccoglitore. «Hai trentadue anni?»

«Sissignore.»

«Sembri più giovane.»

«Faccio una vita sana.»

«Qui dice che sei un detenuto modello.»

«Ho imparato la lezione, signore.»

«Davvero?» L’uomo scrutò Shadow con attenzione e la voglia sulla fronte si abbassò. Shadow pensò di esporre alcune delle sue teorie sul carcere ma si trattenne. Annuì, invece, e si concentrò per mostrarsi adeguatamente contrito.

«Qui dice che hai moglie.»

«Si chiama Laura.»

«Come vanno le cose?»

«Bene. È venuta a trovarmi tutte le volte che ha potuto… il viaggio è lungo. Ci scriviamo e quando posso le telefono.»

«Che mestiere fa?»

«Lavora in un’agenzia di viaggi. Manda la gente in giro per il mondo.»

«Come vi siete conosciuti?»

Shadow non riusciva a capire dove l’altro volesse arrivare. Prese in considerazione l’ipotesi di rispondergli che non erano affari suoi, come aveva conosciuto Laura, invece disse: «Era la migliore amica della moglie del mio migliore amico. Hanno combinato un appuntamento e ci siamo piaciuti».

«E hai un lavoro che ti aspetta?»

«Sissignore. Il mio amico, Robbie, quello che mi ha presentato Laura, è proprietario della Muscle Farm, la palestra dove lavoravo come istruttore. Dice di avermi tenuto il posto.»

L’altro inarcò un sopracciglio. «Sul serio?»

«Dice che secondo lui funzionerà alla grande come richiamo per i vecchi frequentatori e in più attirerà i duri che vogliono diventare ancora più duri.»

L’uomo sembrò soddisfatto. Rosicchiò l’estremità della penna e voltò il foglio.

«Cosa provi riguardo al tuo reato?»

Shadow scrollò le spalle. «Sono stato uno stupido» disse, e lo pensava davvero.

L’uomo con la voglia sulla fronte sospirò e spuntò una voce dal suo elenco. Poi sfogliò la documentazione di Shadow. «Come torni a casa?» chiese. «Prendi il Greyhound?»

«In aereo. Avere una moglie che fa l’agente di viaggio è utile.»

L’uomo aggrottò di nuovo la fronte increspando la voglia. «Ti ha spedito il biglietto?»

«Non ce n’è bisogno. Basta il numero della prenotazione. Il biglietto è elettronico. Devo solo presentarmi all’aeroporto con un documento, tra un mese, e sono a casa.»

L’uomo annuì, scarabocchiò un appunto, poi chiuse l’incartamento e appoggiò la penna. Due mani pallide andarono a posarsi come rosei animaletti sul ripiano grigio della scrivania. Le congiunse, unì gli indici e fissò Shadow con i suoi acquosi occhi color nocciola.

«Sei fortunato» disse. «Hai una donna da cui tornare e un lavoro che ti aspetta. Puoi gettarti quest’esperienza alle spalle. Ti è stata data una seconda possibilità. Cerca di trarne profitto.»

Non tese la mano a Shadow, alzandosi, ma del resto Shadow non si era aspettato che lo facesse.

L’ultima settimana era la peggiore. In un certo senso perfino peggio di tutti e tre gli anni messi insieme. Shadow si chiedeva se fosse colpa del clima opprimente, immoto e freddo. Sentiva avvicinarsi un temporale che non scoppiava mai. Aveva i nervi a pezzi e una gran fifa e nella pancia la sensazione che qualcosa stesse andando molto male. Il cortile dove i detenuti facevano ginnastica era battuto da raffiche di vento. A Shadow sembrava di sentire aria di neve.

Telefonò alla moglie a carico del destinatario perché le società dei telefoni prevedono una tassa di tre dollari per ogni chiamata fatta dai penitenziari. È per questo che gli operatori sono sempre così gentili con i detenuti, secondo lui: sanno bene che sono loro a pagargli lo stipendio.

«C’è qualcosa che non va» disse a Laura. Ma prima le aveva detto qualcos’altro. Le aveva detto «Ti amo», perché è una cosa bella da dire, quando è sincera, e per Shadow lo era.

«Ciao» rispose lei. «Ti amo anch’io. Cosa c’è che non va?»

«Non so. Magari è per via del tempo. Se scoppiasse il temporale forse andrebbe tutto meglio.»

«Qui è bello. Non sono ancora cadute le foglie. Se non arriva il temporale farai in tempo a vederle, quando torni.»

«Tra cinque giorni» disse Shadow.

«Centoventi ore e sarai a casa.»

«È tutto a posto, lì? C’è qualche problema?»

«No, va tutto bene. Stasera vedo Robbie. Stiamo organizzando la festa di bentornato, vogliamo farti una sorpresa.»

«Una sorpresa?»

«Certo. Tu non ne sai niente, hai capito?»

«Niente di niente.»

«Bravo marito» disse lei e Shadow si accorse di sorridere. Era dentro da tre anni ma Laura riusciva ancora a strappargli un sorriso.