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«È molto gentile da parte vostra» rispose Wednesday. «Accettiamo.»

«E mi dai quello che pagheresti per l’albergo» continuò Vechernjaja Zarja con uno scatto trionfante della testa. «Cento dollari.»

«Trenta».

«Cinquanta.»

«Trentacinque.»

«Quarantacinque.»

«Quaranta.»

«D’accordo. Quarantacinque dollari.» Vechernjaja Zarja si protese e strinse la mano di Wednesday, poi cominciò a sparecchiare. Utrennjaja Zarja sbadigliava tanto che Shadow si preoccupò per la sua mascella, poi annunciò che andava a letto perché stava per addormentarsi con la faccia nel piatto e disse buonanotte a tutti.

Shadow aiutò Vechernjaja Zarja a portare piatti e scodelle nel cucinino dove sotto l’acquaio trovò, con sua grande sorpresa, una vecchia lavastoviglie che cominciò a riempire. Affrettandosi a togliere le scodelle dì legno Vechernjaja Zarja lo guardò con aria di disapprovazione. «Queste vanno nel lavandino» disse.

«Mi dispiace.»

«Non preoccuparti. Adesso torniamo di là a mangiare la torta.»

La torta, un’apple pie comperata in pasticceria e riscaldata nel forno, era molto, molto buona. La mangiarono con il gelato e poi Vechernjaja Zarja fece uscire tutti e preparò sul divano un giaciglio molto confortevole. Wednesday parlò con Shadow nel corridoio.

«Prima, quello che hai fatto con la dama» disse.

«Sì?»

«Ben fatto. Molto stupido da parte tua. Anzi, stupidissimo. Ma ben fatto. Dormi bene.»

Nel minuscolo bagno Shadow si lavò i denti e la faccia con l’acqua fredda, poi tornò in salotto, spense la luce e si addormentò ancor prima di avere appoggiato la testa sul cuscino.

C’erano esplosioni, nel sogno: Shadow guidava un camion in un campo minato e le mine scoppiavano da tutte le parti. Il parabrezza andò in frantumi e lungo la faccia gli scorreva un rivolo di sangue.

Qualcuno gli stava sparando.

Un proiettile gli perforò un polmone, un altro gli frantumò la spina dorsale, un altro gli si conficcò nella spalla. Li sentì entrare, a uno a uno. Si accasciò sul volante.

L’ultima esplosione culminò nella tenebra.

Dev’essere un sogno, pensò, solo, al buio. Credo di essere morto. Ricordò di aver sentito dire, da bambino, credendoci, che se muori in sogno muori anche nella realtà. Però in quel momento non si sentiva morto. Provò ad aprire gli occhi.

Nel piccolo salotto, in piedi davanti alla finestra, c’era una donna. Col cuore in gola la chiamò. «Laura?»

La donna si voltò, incorniciata dalla luna. «Mi dispiace» disse. «Non volevo svegliarti.» Aveva un lieve accento dell’Europa dell’Est. «Me ne vado subito.»

«No, resta» disse Shadow. «Non mi hai svegliato. Stavo sognando.»

«Sì. Gridavi, gemevi. Avrei voluto scuoterti, ma poi mi sono detta, no, devo lasciarlo stare.»

Aveva i capelli chiari, quasi bianchi alla debole luce lunare. Indossava una camicia da notte di cotone bianco con un colletto alto, di pizzo, lunga fino ai piedi. Shadow si mise seduto, completamente sveglio. «Tu sei Zarja Polu…» esitò «la sorella che dormiva.»

«Sì, sono Polunochnaja Zarja. E tu ti chiami Shadow, vero? Così mi ha detto Vechernjaja Zarja quando mi sono svegliata.»

«Sì. Che cosa stavi guardando, là fuori?»

Lei gli fece cenno di avvicinarsi alla finestra. Si voltò quando lui si infilò i jeans. Le si avvicinò. Sembrava un lungo percorso, per una stanza così piccola.

Non riusciva a capire quanti anni avesse. La sua pelle era levigata, gli occhi scuri con le ciglia lunghe e folte, i capelli bianchi lunghi fino alla vita. La luce della luna attenuava i colori trasformandoli in spettri di se stessi. Era più alta delle sorelle.

Gli indicò il cielo. «Stavo guardando quella» disse puntando il dito. «La vedi?»

«L’Orsa Maggiore» disse lui.

«È un modo di vedere le cose» disse. «Che non è quello del posto da cui provengo io. Vado a sedermi sul tetto. Vuoi venire con me?»

Aprì la finestra e si arrampicò, scalza, sulla scala antincendio. Il vento era gelido. C’era qualcosa che inquietava Shadow, ma non sapeva che cosa; esitò, poi si infilò maglione, calze e scarpe e seguì la donna sulla scala arrugginita. Lei lo stava aspettando. Nell’aria fredda il fiato di Shadow sembrava vapore. La guardò salire a piedi nudi gli scalini di metallo ghiacciati e la seguì su fino al tetto.

Le raffiche di vento le incollavano la camicia da notte al corpo, e Shadow si rese conto con disagio che, sotto, Polunochnaja Zarja non indossava niente.

«Non soffri il freddo?» le chiese quando arrivarono in cima alle scale e il vento sferzava via le sue parole.

«Come?»

Chinò il viso verso di lui. Aveva un alito dolce.

«Ti ho domandato se non senti freddo.»

In risposta lei alzò un dito: "aspetta", sembrava dire. Con un balzo leggero saltò sul tetto. Salì anche Shadow, meno leggiadramente, e la seguì fino all’ombra della cisterna dell’acqua. Lì li aspettava una panchina di legno; lei vi si sedette e lui la imitò. La cisterna li riparava dal vento e Shadow gliene fu grato.

«No» disse lei. «Non soffro il freddo. Questo è il mio tempo: di notte mi sento a mio agio, come un pesce nell’acqua.»

«La notte ti deve piacere molto» disse lui rammaricandosi subito di non aver detto qualcosa di più saggio e profondo.

«Le mie sorelle appartengono al loro tempo. Utrennjaja Zarja appartiene all’alba. Nel nostro paese si svegliava per aprire i cancelli e far uscire nostro padre con il… mi dimentico sempre questa parola, è come una carrozza a cavalli?»

«Cocchio?»

«Con il suo cocchio. Nostro padre usciva con il cocchio. E Vechernjaja Zarja gli riapriva i cancelli al crepuscolo, quando tornava da noi.»

«E tu?»

Lei non rispose subito. Aveva le labbra piene, ma molto pallide. «Io non lo vedevo mai. Dormivo.»

«È una malattia?»

Lei non rispose. Quando scrollò le spalle, se le scrollò, lo fece in maniera impercettibile. «Dunque. Volevi sapere che cosa stavo guardando.»

«L’Orsa Maggiore.»

Lei alzò un braccio per indicarla e il vento le incollò la camicia da notte sul corpo. I capezzoli, ogni millimetro di pelle d’oca sul seno furono per un momento visibili, scuri contro il cotone bianco. Shadow ebbe un brivido.

«Il Grande Carro di Odino, lo chiamano. Oppure Orsa Maggiore. Nel posto da dove vengo io crediamo che ci sia una cosa, una… non una divinità ma qualcosa di simile, una creatura cattiva, incatenata a quelle stelle. Se scappasse si mangerebbe tutto il mondo. E perciò ci sono tre sorelle che giorno e notte sorvegliano il cielo senza sosta. Se si liberasse, quella cosa tra le stelle, il mondo finirebbe, puf, così.»

«E la gente ci crede?»

«Ci credeva. Tanto tempo fa.»

«E tu guardavi per cercare di individuare il mostro incatenato alle stelle?»

«Sì. Qualcosa del genere.»

Shadow sorrise. Se non ci fosse stato quel gran freddo, pensò, avrebbe creduto di sognare. Sembrava tutto un sogno.

«Ti posso chiedere quanti anni hai? Le tue sorelle sembrano molto più anziane di te.»

Lei annuì. «Sono la più giovane. Utrennjaja Zarja è nata al mattino, e Vechernjaja Zarja di sera, io invece sono nata a mezzanotte. Sono la sorella della mezzanotte, Polunochnaja Zarja. Sei sposato?»

«Mia moglie è morta. È morta la settimana scorsa in un incidente di macchina. C’è stato il funerale ieri.»

«Mi dispiace.»

«Ieri notte è venuta a trovarmi.» Non era stato difficile dirlo; nell’oscurità, con la luna, non era impensabile come alla luce del giorno.

«Le hai chiesto che cosa voleva?»

«No. Non gliel’ho chiesto.»