Quel sabato mattina a salutarli c’era soltanto Utrennjaja Zarja. Prese i quarantacinque dollari e insisté per scrivere con una calligrafia larga e arzigogolata una ricevuta sul retro di un buono scaduto per una bibita. Con il suo viso da vecchia truccato con cura e i capelli d’oro legati alti sulla testa sembrava una bambola, alla luce del mattino.
Wednesday le baciò la mano. «Ti ringrazio per l’ospitalità, cara signora» disse. «Tu e le tue adorabili sorelle siete sempre splendenti come il firmamento.»
«E tu sei un vecchio malvagio» gli rispose lei agitando un dito ammonitore. Poi lo abbracciò. «Stai attento. Non mi piacerebbe venire a sapere che te ne sei andato per sempre.»
«La notizia addolorerebbe anche me, mia cara.»
La donna strinse la mano a Shadow. «Polunochnaja Zarja ha una grande opinione di te» disse. «E anch’io.»
«Grazie» rispose Shadow. «E grazie per la cena.»
Lei aggrottò un sopracciglio. «Ti è piaciuta? Torna a trovarci, allora.»
I due uomini cominciarono a scendere le scale. Shadow infilò le mani in tasca. Il dollaro d’argento era freddo, più grosso e pesante delle monete che era abituato a maneggiare. Provò una tecnica di palmaggio classico, lasciando cadere la mano lungo il fianco con naturalezza, poi la raddrizzò mentre la moneta scivolava nel palmo. Sembrava starci bene, lì dentro, trattenuta dalla leggera pressione di medio e anulare.
«Ben fatto» disse Wednesday.
«Sto cercando di imparare. Da un punto di vista tecnico me la cavo, la parte più difficile resta sempre quella di attirare l’attenzione della gente sulla mano sbagliata.»
«È così che si deve fare?»
«Sì» rispose Shadow. «Si chiama indirizzo erroneo.» Fece scivolare il medio sotto il dollaro spingendolo sul dorso della mano e sbagliò il movimento. La moneta cadde tintinnando sulle scale e rimbalzò per mezza rampa. Fu Wednesday a raggiungerla per primo e a raccoglierla.
«Non puoi permetterti di maltrattare i doni» gli disse. «A una cosa come questa bisogna stare attenti. Non andare a gettarla chissà dove.» Esaminò il dollaro, studiando prima la faccia con l’aquila, poi quella con la Libertà. «Ah, Signora Libertà. Bellissima, non trovi?» La lanciò a Shadow che la prese al volo, e finse di lasciarsela cadere nella mano sinistra, mentre in realtà la tratteneva nella destra, e poi di infilarla in tasca con la sinistra. Invece il dollaro era nella destra in bella mostra. Sembrava a suo agio, lì.
«Signora Libertà» continuò Wednesday, «una straniera, come molti dèi cari agli americani. Una francese, per la precisione, anche se per riguardo al pudore americano i francesi le coprirono i magnifici seni, nella statua offerta a New York. Libertà» si interruppe arricciando il naso davanti a un preservativo usato in fondo alle scale e spostandolo con disgusto con la punta della scarpa. «Qualcuno ci potrebbe scivolare e rompersi il collo» borbottò, sospendendo il discorso. «Come su una buccia di banana, ma con un pizzico di cattivo gusto e ironia in più.» Spalancò il portone e la luce del sole li colpì. «Libertà» tuonò mentre si avviavano verso l’automobile, «una puttana che si lascia prendere solo sopra un letto di cadaveri.»
«Ah sì?»
«Cito un francese. È a lei che hanno eretto una statua nel porto di New York, una puttana a cui piaceva farsi sbattere sopra i corpi dei condannati sulla carretta che tornava dalla ghigliottina. Tieni la fiaccola alta fin che ti pare, mia cara, nei tuoi vestiti si annidano ancora i ratti, e lungo le gambe ti cola ancora lo sperma freddo.» Aprì la portiera e fece segno a Shadow di prendere posto sul sedile accanto a quello di guida.
«A me sembra bellissima» disse osservando la moneta da vicino. La faccia argentea della Libertà gli ricordava un po’ Polunochnaja Zarja.
«Questa è l’eterna follia umana» rispose Wednesday. «Dare la caccia alla carne tenera senza rendersi conto del fatto che si tratta soltanto di un bel rivestimento delle ossa. Cibo per vermi. Di notte, quando abbracci una donna, ti stringi a una massa calda di cibo per vermi. Senza offesa.»
Shadow non aveva mai visto Wednesday così espansivo. Il suo nuovo capo, stabilì, attraversava fasi di estroversione seguite da periodi di profonda indifferenza. «Tu non sei americano, allora?» gli domandò.
«Nessuno lo è. Di origine americana, intendo. O perlomeno così la penso io.» Diede un’occhiata all’orologio. «Prima della chiusura delle banche abbiamo ancora parecchio tempo. A proposito, bel lavoretto ieri sera con Chernobog. Alla fine sarei riuscito a convincerlo a venire lo stesso, però tu l’hai fatto arruolare molto più volentieri.»
«Solo perché dopo mi può ammazzare.»
«Non è detto. Come hai saggiamente fatto osservare tu è vecchio, e il colpo fatale potrebbe lasciarti paralizzato per sempre, diciamo. Un invalido permanente. Perciò guarda con fiducia al futuro, anche nel caso il signor Chernobog riesca a sopravvivere alle prossime difficoltà.»
«Sussistono dei dubbi, in proposito?» chiese Shadow esprimendosi come Wednesday e odiandosi, per questo.
«Sì, cazzo.» Wednesday entrò nel parcheggio di una banca. «Questo è l’istituto di credito che stiamo per svaligiare. Sono aperti ancora per qualche ora. Entriamo a salutarli.»
Fece un cenno a Shadow che scese malvolentieri dalla macchina. Se il vecchio voleva combinare qualche stupidaggine lui non aveva nessuna intenzione di farsi riprendere da una telecamera. Ma siccome la curiosità lo pungeva lo seguì ugualmente. Tenne gli occhi sul pavimento e si grattò il naso facendo del suo meglio per tenere la faccia nascosta.
«Scusi, signora, i moduli di versamento?» chiese Wednesday all’unica impiegata in vista.
«Sono laggiù.»
«Molto bene. E se mi trovassi nella necessità di fare un versamento in orari notturni…?»
«Valgono gli stessi moduli.» La donna gli sorrise. «Sa dove si trova lo sportello, vero, signore? A sinistra dell’entrata principale.»
«Molte grazie.»
Wednesday prese alcuni moduli, salutò con un sorriso l’impiegata e uscì insieme a Shadow.
Sul marciapiede si fermò a grattarsi pensoso la barba. Poi si avvicinò allo sportello del bancomat e a quello della cassa continua per i versamenti notturni all’esterno della banca e li ispezionò. Attraversò la strada e portò Shadow nel supermercato dove acquistò un ghiacciolo al cioccolato fondente per sé e una tazza di cioccolata calda per lui. Su una parete dell’ingresso c’era un telefono pubblico, sotto un tabellone con annunci di camere in affitto e gattini in cerca di famiglie affettuose. Wednesday trascrisse il numero del telefono pubblico. Ritornarono dall’altra parte della strada. «Quello che ci serve adesso» disse «è un po’ di neve. Una bella, intensa, fastidiosa nevicata. Puoi pensare "neve" per me, per favore?»
«Cosa?»
«Concentrati su quelle nuvole — quelle lassù a occidente — e falle diventare sempre più grandi e più nere. Pensa a un cielo grigio e a raffiche di vento dall’Artico. Pensa neve.»
«Non credo che servirà.»
«Stupidaggini. Se non altro ti terrà la mente occupata» ribatté Wednesday aprendo l’automobile. «Adesso andiamo da Kinko. Sbrigati.»
Neve, pensò Shadow seduto in macchina, mentre sorseggiava la cioccolata. Grandi raffiche di neve in fiocchi vorticanti, macchie bianche contro il cielo grigio ferro, neve che ti cade sulla lingua come un bacio, fredda e invernale, che ti sfiora la faccia con un tocco esitante prima di gelarti a morte. Trenta centimetri di neve soffice come zucchero filato per creare un mondo da favola, dove ogni cosa è bellissima, irriconoscibile…
Wednesday gli stava parlando.
«Come?»
«Ho detto che siamo arrivati, ma tu eri da un’altra parte.»
«Stavo pensando alla neve» rispose Shadow.