Prese una mazzetta di banconote da cinquanta, ne aggiunse un mucchietto più piccolo da venti, le soppesò in mano e poi le passò a Shadow. «Tieni» disse. «Il salario della tua prima settimana di lavoro.»
Shadow infilò i soldi in tasca senza contarli. «Allora è questo che fai per guadagnarti da vivere?»
«Di rado. Solo quando ho bisogno di tirare su un mucchio di soldi in poco tempo. In genere me li faccio dare da gente che non si accorge nemmeno di avermeli dati, che non va a lamentarsi e che quando torno dalle loro parti si rimette quasi sempre in fila per darmene ancora un po’.»
«Quel tipo, Sweeney, ha detto che sei un imbroglione.»
«Aveva ragione. Ma imbrogliare è l’ultima delle mie specialità. E anche l’ultima delle cose che voglio da te, Shadow.»
La neve continuò a scendere illuminata dai fari e spazzata dai tergicristallo, mentre procedevano nella notte. L’effetto era quasi ipnotico.
«Questo è l’unico paese al mondo che si domanda chi è» disse Wednesday.
«In che senso?»
«Tutti gli altri sanno chi sono. Nessuno ha bisogno di andare a cercare il cuore della Norvegia. O l’anima del Mozambico. Sanno chi sono.»
«E poi…»
«Niente, pensavo a voce alta.»
«Sei stato in molti paesi, sembrerebbe.»
Wednesday non parlò. Shadow si girò a dargli un’occhiata. «No» disse infine il vecchio con un sospiro. «No. Non sono mai stato da nessuna parte.»
Si fermarono a fare benzina e Wednesday, ancora vestito da guardia giurata, andò in bagno con la valigia e ne uscì con un abito chiaro e un paio di scarpe marroni sotto un cappotto marrone lungo fino alle ginocchia che sembrava di fattura italiana.
«Quando arriviamo a Madison che cosa succede?»
«Prendi la Highway Fourteen a ovest per Spring Green. Dobbiamo incontrarci con gli altri in un posto che si chiama House on the Rock. Ci sei mai stato?»
«No» rispose Shadow. «Però ho visto i cartelli.»
Le segnalazioni per la House on the Rock erano ovunque, in quella parte del mondo: indicazioni ambigue e misteriose ovunque nell’Illinois e nel Minnesota e nel Wisconsin, probabilmente anche fin nell’Iowa, sospettava Shadow, cartelli che informavano dell’esistenza della casa sulla roccia. Li aveva notati e si era chiesto di cosa si trattasse. Forse la casa era pericolosamente in bilico sulla roccia? Che cos’aveva quella roccia di tanto interessante? E la casa? Ci aveva pensato e poi se n’era dimenticato subito. Visitare le mete turistiche non era nelle sue abitudini.
Lasciarono l’Interstate a Madison, superarono la cupola del palazzo del governo, un’altra scena perfetta per la palla con la neve che cade, e imboccarono la provinciale. Dopo quasi un’ora di attraversamenti di cittadine con nomi come Black Earth, svoltarono in un sentiero fiancheggiato da alcuni enormi vasi di fiori innevati avviluppati nelle spire di draghi che somigliavano a lucertole. Il parcheggio alberato era quasi vuoto.
«Stanno per chiudere» annunciò Wednesday.
«È questo, il famoso posto?» chiese Shadow mentre attraversavano il parco per entrare in un anonimo edificio di legno.
«È una meta turistica» disse Wednesday. «Una delle più belle. Il che significa che è un luogo di potere.»
«Come, prego?»
«Semplice. Negli altri paesi, nel corso del tempo, la gente si è accorta dei luoghi di potere. A volte si tratta di una formazione naturale, altre volte di un posto in qualche modo speciale. Sapevano che lì succedeva qualcosa di importante, che c’era una concentrazione di energia, un canale di comunicazione, una finestra aperta nell’Immanenza. E perciò vi costruivano templi e cattedrali, oppure erigevano cerchi di pietra, oppure… be’, hai capito il concetto.»
«Sì, però l’America è piena di chiese» disse Shadow.
«Ce n’è una in ogni città. O addirittura in ogni quartiere. E nel contesto attuale non rivestono più significato di uno studio dentistico. No, negli Stati Uniti d’America capita ancora che la gente si senta chiamata, perlomeno qualcuno, attirata dal vuoto trascendente, una chiamata a cui rispondono costruendo qualcosa di ispirato alle bottiglie di birra di posti dove non sono mai stati, o erigendo una voliera gigantesca per pipistrelli in una zona del paese dove i pipistrelli non si sono mai visti. Mete turistiche: la gente si sente attirata da luoghi dove in altre zone del mondo verrebbe in contatto con la parte autenticamente trascendente di sé, e invece va lì, si compera un panino col wurstel e fa quattro passi sperimentando un senso di soddisfazione che non riesce a descrivere bene e, a un livello più profondo, un estremo senso di insoddisfazione.»
«Hai delle teorie piuttosto pazzesche» disse Shadow.
«Non c’è niente di teorico in quello che dico, giovanotto» ribatté Wednesday. «Ormai dovresti averlo capito.»
C’era un unico sportello aperto. «Smettiamo di vendere i biglietti tra mezz’ora» disse la ragazza. «La visita dura minimo due ore.»
Wednesday pagò in contanti.
«Dov’è la roccia?» chiese Shadow.
«Sotto la casa» rispose Wednesday.
«Dov’è la casa?»
Wednesday si portò un dito alle labbra e si avviarono. Dentro c’era un pianista che si sforzava di suonare il Bolero di Ravel. Sembrava il pied-à-terre di uno scapolo degli anni Sessanta riconfigurato in maniera geometrica, con pietra a vista, una spessa moquette e lampade di vetro colorato a forma di fungo simpaticamente orrende. In cima a una scala a chiocciola c’era un’altra stanza zeppa di cianfrusaglie.
«Dicono che sia stata costruita dal gemello malvagio di Frank Lloyd Wright» disse Wednesday. «Frank Lloyd Wrong.» E ridacchiò della battuta.
«L’ho visto scritto su una maglietta» disse Shadow.
Su e giù per altre scale e adesso erano finiti in una stanza lunga, molto lunga, tutta di vetro, che si sporgeva a picco sopra la campagna spoglia, bianca e nera. Shadow rimase a osservare i fiocchi di neve che cadevano vorticando.
«È questa, la House on the Rock?» domandò perplesso.
«Più o meno. Questa è la Sala dell’Infinito, che fa parte della casa, anche se si tratta di un’aggiunta tardiva. Comunque no, giovane amico, non ci siamo nemmeno avvicinati alla superficie di ciò che la casa ha da offrire.»
«Secondo la tua teoria» disse Shadow «Disney World sarebbe il luogo più sacro d’America.»
Wednesday aggrottò la fronte e si accarezzò la barba. «Walt Disney ha comperato un aranceto in mezzo alla Florida e ci ha costruito sopra una grande meta turistica. Non c’è niente di magico. Credo che nella Disneyland originale ci fosse qualcosa di vero, una specie di potere, magari perverso, e difficilmente accessibile. Ma in Florida ci sono posti pieni di autentica magia. Basta tenere gli occhi aperti. Ah, in quanto alle ondine di Weeki Wachee… Seguimi da questa parte.»
C’era musica dappertutto: una musica stridula, strana, spesso leggermente stonata. Wednesday infilò una banconota da cinque dollari in un distributore e ne ritirò una manciata di gettoni di metallo giallo ottone. Ne lanciò uno a Shadow che lo prese al volo e, siccome c’era un bambino che lo stava osservando, lo tenne per un istante tra pollice e indice e lo fece sparire. Il bambino corse dalla madre, intenta a studiare una delle innumerevoli raffigurazioni di Santa Claus — OLTRE SEIMILA ESEMPLARI IN MOSTRA! diceva il cartello — e la strattonò con urgenza per l’orlo del cappotto.
Shadow seguì Wednesday fuori per qualche istante, poi presero la direzione per le Strade di Ieri.
«Quarant’anni fa» attaccò Wednesday «Alex Jordan — sul gettone che hai fatto sparire nella mano destra c’è la sua faccia — ha cominciato a costruire una casa su una sporgenza rocciosa in un terreno che non era di sua proprietà, e lui stesso non avrebbe saputo dire perché. E la gente veniva a vederlo costruire: i curiosi e i perplessi, e quelli che non erano né curiosi né perplessi e che in tutta onestà non ti avrebbero saputo dire perché erano venuti. Quindi fece quello che avrebbe fatto qualsiasi ragionevole maschio americano della sua generazione: cominciò a chiedere ai visitatori di pagare un biglietto, non molto, cinque centesimi, forse. O venticinque. Continuò a costruire e la gente continuava a venire a vedere.