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A cosa devo credere? pensò Shadow, e la voce gli rispose da un punto profondo nelle viscere della terra, con un rombo sordo. Credi a tutto.

«Odino?» chiamò Shadow, e il vento si portò via le sue parole.

«Odino» sussurrò Wednesday, e il fragore delle onde sulla spiaggia di teschi non era abbastanza forte per coprire il sussurro. «Odino» disse Wednesday assaporando il suono di quel nome. «Odino» ripeté in un grido trionfante che echeggiava da un orizzonte all’altro. Il nome si gonfiava, crescendo a dismisura, riempiendo il mondo come il sangue pulsante nelle orecchie di Shadow.

E poi, come in sogno, non stavano più dirigendosi verso una meta lontana. Erano già arrivati e le loro cavalcature erano legate sotto un riparo poco distante.

Una sala enorme ma primitiva: il tetto di giunchi, le pareti di legno. Al centro bruciava un fuoco il cui fumo irritò gli occhi di Shadow.

«Dovevamo farlo nella mia mente» borbottò il signor Nancy rivolto a Shadow, «non nella sua. Almeno avrebbe fatto più caldo.»

«Siamo nella sua mente?»

«Più o meno. Questa è Valaskjalf. L’antica sala, la sua dimora.»

Shadow constatò con sollievo che Nancy era tornato a essere un vecchietto con i guanti gialli, anche se la sua ombra tremolava alla luce delle fiamme e prendeva forme non del tutto umane.

Contro le pareti c’erano panche di legno e, sedute sulle panche oppure in piedi, una decina di persone in tutto. Si tenevano a distanza l’una dall’altra: un gruppetto eterogeneo, che comprendeva una donna dall’aspetto matronale con la pelle scura e il sari, alcuni uomini d’affari dall’aria trascurata e altre persone ancora, troppo vicine al fuoco perché Shadow potesse distinguerle.

«Dove sono?» chiese Wednesday a Nancy a bassa voce ma con violenza. «Dunque? Dove sono? Dovrebbero essercene decine. Centinaia!»

«Li inviti li hai fatti tu» rispose Nancy. «Credo che sia già stupefacente che siano venuti questi. Pensi che dovrei raccontare una storia per riscaldare l’ambiente?»

Wednesday scosse la testa. «È fuori discussione.»

«Non hanno un’aria molto cordiale. Una storia è un bel modo per propiziarsi qualcuno. E non hai neanche un bardo che canti.»

«Niente storie» ribadì Wednesday. «Per il momento. Dopo ci sarà tempo per le storie. Per il momento no.»

«Niente storie. D’accordo. Vado solo a riscaldare l’atmosfera.» E così dicendo il signor Nancy si avvicinò al fuoco a grandi passi e con un sorriso disinvolto.

«So che cosa state pensando tutti» disse. «State pensando, cosa vuole Compé Anansi che viene qui a parlare quando è stato il Padre Universale a convocare tutti, proprio come ha convocato me? Be’, sapete, a volte è necessario rinfrescarsi la memoria. Quando sono arrivato mi sono guardato intorno e mi sono chiesto, dove sono gli altri? Ma poi ho pensato, solo perché noi siamo pochi e loro sono tanti, solo perché noi siamo deboli e loro potenti ciò non significa che siamo perduti.

«Sapete, una volta ho visto un maschio di tigre giù alla sorgente: aveva i più grossi testicoli mai visti in un animale e gli artigli più affilati, e due canini lunghi come coltelli e taglienti come rasoi. E gli ho detto, Fratello Tigre, vai pure a farti una nuotata, te le curo io le palle. Era così fiero di quelle palle. Così lui è entrato nella pozza per farsi una nuotatina e io ho indossato le sue palle, lasciandogli in cambio le mie, piccoline, da ragno. E poi sapete che cosa ho fatto? Sono scappato con tutta la velocità consentita dalle mie zampe.

«Non mi sono fermato fino alla città successiva. E lì ho visto il Vecchio Scimmione. Hai proprio un bell’aspetto, Anansi, dice il Vecchio Scimmione. E io gli dico: Sai che cosa stanno cantando tutti quanti in quell’altra città? Che cosa cantano? mi chiede lui. Cantano una canzone molto buffa, gli dico. A quel punto mi metto a ballare e canto:

Le palle del Tigre, sì, Me le sono mangiate. E adesso nessuno mi ferma più, Nessuno mi fa prepotenze Perché mi sono mangiato le referenze: Le palle del Tigre.

«Il Vecchio Scimmione ride a crepapelle, tenendosi la pancia e rotolandosi per terra, poi attacca a cantare Le palle del Tigre, Me le sono mangiate, schioccando le dita e piroettando. Proprio una bella canzone, dice, andrò a cantarla agli amici. Bravo, fallo, dico io e ritorno alla sorgente.

«Lì c’è il Tigre, vicino alla pozza d’acqua, che va avanti e indietro con la coda che sferza l’aria e il pelo ritto sulle orecchie e sulla schiena che di più non si potrebbe e con i denti a sciabola sbrana qualsiasi insetto gli venga a tiro e manda fiamme arancioni dagli occhi. Ha un’aria feroce e potente, fa paura, ma in mezzo alle gambe gli penzolano due palle ridicolmente piccole dentro lo scroto più piccolo e nero che si sia mai visto.

«Ehi, Anansi, dice quando mi vede. Dovevi fare la guardia alle mie palle mentre io mi facevo una nuotata. Ma quando sono uscito dalla pozza sulla riva c’erano soltanto queste due inutili palline nere e rinsecchite da ragno che porto adesso.

«Ho fatto del mio meglio, gli dico io, ma sono state le scimmie, sono arrivate e te le hanno mangiate, e quando ho detto loro di andarsene mi hanno strappato anche le mie palline. E io mi vergognavo così tanto che sono scappato.

«Sei un bugiardo, Anansi, dice il Tigre. Adesso ti mangerò il fegato. Ma a quel punto sente arrivare le scimmie. Ce n’è una dozzina che saltellano lungo il sentiero che dalla loro città porta alla sorgente e schioccano le dita e cantano con quanto fiato hanno in gola:

Le palle del Tigre, sì, Me le sono mangiate. E adesso nessuno mi ferma più, Nessuno mi fa prepotenze Perché mi sono mangiato le referenze: Le palle del Tigre.

«Il Tigre grugnisce e ringhia e si slancia al loro inseguimento nella giungla e le scimmie si arrampicano strillando sugli alberi più alti. E io mi gratto le mie palle nuove belle grosse, e cavoli se non mi danno una bella sensazione lì penzoloni in mezzo alle zampette, e me ne torno a casa. E ancora oggi le tigri danno la caccia alle scimmie. Perciò ricordatevi tutti quanti: solo perché siete piccoli non significa che non avete potere.»

Il signor Nancy sorrise e chinò la testa, allargò le mani e accettò gli applausi e le risate come un uomo di spettacolo, poi si voltò e tornò nel punto in cui Shadow e Chernobog erano rimasti ad aspettarlo.

«Credevo di avere detto niente storie» disse Wednesday.

«La chiami una storia quella? Mi sono appena schiarito la gola. Te li ho riscaldati. Vai e stendili.»

Wednesday, un vecchio grande e grosso con un occhio di vetro in abito marrone sotto un vecchio cappotto di Armani, avanzò verso il fuoco. Rimase a guardare le persone sedute sulle panche di legno e, per molto più tempo di quello che secondo Shadow sarebbe stato lecito senza mettere nessuno a disagio, restò in silenzio. Infine parlò.

«Voi sapete chi sono» disse. «Lo sapete tutti. Qualcuno di voi non ha alcuna ragione di amarmi ma, con o senza amore, mi conoscete lo stesso.»

Tra la gente seduta sulle panche corse un brusio, un piccolo trambusto.