Dal sopracciglio sinistro gli colava un sottile rivolo di sangue. Aveva mal di testa. Il pavimento era spoglio. Picchiò: era fatto dello stesso materiale metallico delle pareti.
Sollevò il coperchio del secchio, pisciò e riappoggiò il coperchio. Secondo il suo orologio erano passate solo quattro ore dall’imboscata al ristorante.
Non aveva più il portafogli, però gli avevano lasciato le monete.
Sedette sulla sedia davanti al tavolino pieghevole coperto da un panno verde pieno di bruciature di sigaretta. Si esercitò a far comparire le monete attraverso il ripiano del tavolo, poi ne prese due da venticinque centesimi ed eseguì il cosiddetto Trucco Ozioso.
Nascose una moneta nel palmo destro e mostrò l’altra nella sinistra tenendola tra indice e pollice. Poi finse di prendere quella che teneva con la sinistra mentre in realtà la nascondeva nel palmo e apriva la mano destra per mettere in mostra la moneta che non si era mai mossa di lì.
Manipolare le monete richiedeva tutta la sua capacità di concentrazione; anzi, se era arrabbiato o sconvolto non riusciva a combinare niente, e quindi esercitarsi con i giochi di prestigio, anche quelli che non avevano un senso — come in questo caso, in cui aveva investito un’enorme quantità di fatica e abilità per creare l’illusione di spostare una moneta da una mano all’altra, cosa che si potrebbe ottenere con un semplice gesto — aveva sempre l’effetto di calmarlo, di scacciare dalla sua mente agitazione e paura.
Poi affrontò un trucco ancora più inutile: la trasformazione di mezzo dollaro in un penny con una mano sola, usando le due monete da venticinque centesimi che venivano via via mostrate e nascoste: cominciò con una moneta in vista e l’altra nascosta. Avvicinò la mano alla bocca e soffiò eseguendo un palmaggio classico, mentre con pollice e indice prendeva la moneta nascosta e la mostrava. Il trucco consisteva nel mostrare una moneta nella mano, portare la mano alla bocca, soffiarci sopra, abbassare la mano e mostrare di nuovo la stessa moneta.
Continuò a ripetere l’esercizio all’infinito.
Quando si chiese se lo avrebbero ucciso la mano gli tremò, solo un breve tremito, e una delle due monete da venticinque centesimi sfuggì al polpastrello e cadde sul panno verde che ricopriva il tavolino.
E poi, quando ormai non ne poteva più, infilò in tasca le due monete e tirò fuori il dollaro con la Libertà che Polunochnaja Zarja gli aveva dato, lo strinse forte nella mano e restò ad aspettare.
Alle tre di notte, secondo il suo orologio, gli spioni tornarono per interrogarlo. Due uomini vestiti di scuro, con i capelli scuri e le scarpe nere e lucide. Uno aveva la mascella quadrata, le spalle larghe, una gran massa di capelli e tutta l’aria di aver giocato a football alle scuole superiori, e si mangiava le unghie fino all’osso; l’altro aveva un principio di calvizie, portava un paio di occhiali rotondi con la montatura di metallo e aveva le unghie ben curate. Benché non si somigliassero per niente, Shadow sospettò che a qualche livello, cellulare, forse, i due fossero identici. In piedi ai lati del tavolino, gli spioni lo guardarono.
«Da quanto tempo lavora per Cargo, signore?» gli chiese uno di loro.
«Non so nemmeno chi sia» rispose Shadow.
«Si fa chiamare Wednesday. Grimm. Olfather. Vecchio. Siete stati visti insieme.»
«Lavoro per lui da un paio di giorni.»
«Non menta, signore» disse lo spione con gli occhiali.
«Va bene» rispose Shadow. «Non mentirò. Ma restano lo stesso due giorni.»
Lo spione con la mascella quadrata si abbassò e torse un orecchio a Shadow con due dita. Stringeva con indice e pollice, mentre torceva. Il dolore era intenso. «Le abbiamo detto di non raccontarci bugie, signore» disse dolcemente. Poi lasciò la presa.
I due spioni avevano entrambi un rigonfiamento nella giacca, dove portavano la pistola. Shadow non cercò di reagire. Finse di essere di nuovo in carcere. Tieni duro, si disse. Non raccontare niente che non sappiano già. Non fare domande.
«È gente pericolosa, quella con cui va in giro, signore» disse lo spione con gli occhiali. «Se si pente renderà un servizio al paese.» Sorrise amichevole: Sono il poliziotto buono, diceva il sorriso.
«Capisco» rispose Shadow.
«Ma se non ci aiuterà» disse lo spione con la mascella quadrata «vedrà di che cosa siamo capaci, quando ci fanno arrabbiare.» Colpì Shadow con un pugno nello stomaco così violento da togliergli il respiro. Non voleva torturarlo, pensò Shadow, soltanto puntualizzare: Io sono quello cattivo. Ebbe un conato di vomito.
«Mi piacerebbe farvi contenti» disse non appena riuscì di nuovo a parlare.
«Le chiediamo semplicemente di cooperare.»
«Posso sapere…» ansimò Shadow (non fare domande, pensò, ma ormai era troppo tardi, le parole gli erano sfuggite), «posso sapere con chi dovrei cooperare?»
«Vuole sapere come ci chiamiamo?» chiese lo spione con la mascella quadrata. «Dev’essere matto.»
«No, ha ragione» disse quello con gli occhiali. «Forse gli riuscirebbe più facile entrare in rapporto con noi.» Guardò Shadow e gli sorrise come l’attore di una pubblicità di un dentifricio. «Piacere. Io sono il signor Stone, signore. Il mio collega si chiama Wood.»
«In realtà, volevo sapere se siete della Cia o dell’Fbi.»
Stone scrollò la testa. «Cavoli. Non è più facile come una volta. Le cose non sono più così lineari.»
«Settore privato» intervenne Wood «e settore pubblico. Sa com’è, di questi tempi interagiscono.»
«Comunque le posso assicurare» disse Stone con un altro dei suoi sorrisi tutti denti «che noi siamo dalla parte giusta. Ha forse fame, signore?» Da una tasca della giacca tirò fuori una merendina Snicker. «Tenga. Gliela regalo.»
«Grazie» disse Shadow. Tolse l’involucro alla barretta e la mangiò.
«Le piacerebbe bere qualcosa? Un caffè? Una birra?»
«Acqua, per favore.»
Storie si avvicinò alla porta e bussò. Disse qualcosa alla guardia dall’altra parte che annuì e tornò dopo un momento con un bicchiere di plastica pieno d’acqua fredda.
«Cia» disse Wood. Poi scosse la testa con aria afflitta. «Quegli ubriaconi. Ehi, Stone, ho sentito una barzelletta. Allora, come facciamo a essere sicuri che la Cia non fosse coinvolta nell’assassinio di Kennedy?»
«Non so» rispose Stone. «Come facciamo?»
«È morto, no?» disse Wood.
Risero tutti e due.
«Si sente meglio, adesso?» chiese Stone.
«Mi pare di sì.»
«Allora perché non ci racconta quello che è successo stasera?»
«Abbiamo fatto i turisti. Siamo andati alla House on the Rock. Poi al ristorante. Il resto lo sapete.»
Stone fece un grosso sospiro. Wood scosse la testa come se fosse deluso e sferrò un calcio a Shadow sulla rotula. Il dolore era atroce. Poi gli appoggiò lentamente un pugno nella schiena, proprio sopra il rene destro, e spinse con le nocche, forte, e il dolore fu molto peggio di quello al ginocchio.
Sono più grosso di loro, pensò. Potrei farcela. Però loro erano armati; e anche se fosse riuscito — chissà come — a ucciderli o a immobilizzarli, sarebbe pur sempre rimasto chiuso con loro nella cella. Però avrei una pistola. Anzi due. (No.)
Wood non lo colpiva mai in faccia. Non volevano lasciare segni. Nessun danno permanente: solo pugni e calci sul tronco e le ginocchia. Faceva male, e Shadow strinse più forte il dollaro della Libertà nella mano e aspettò che il pestaggio finisse.
E dopo molto tempo finì.
«Ci vediamo tra un paio d’ore, signore» disse Stone. «Lo sa che a Woody dispiace veramente dover fare queste cose? Noi siamo persone ragionevoli. Come ho detto, stiamo dalla parte giusta. È lei che è dalla parte sbagliata. Nel frattempo perché non prova a dormire un po’?»