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«Farà meglio a parlare sul serio» disse Wood.

«Woody ha ragione» disse Stone. «Ci pensi su.»

La porta si chiuse alle loro spalle con un tonfo. Shadow si chiese se avrebbero spento la luce, ma non la spensero e la lampadina rimase a illuminare la stanza come un occhio abbagliante. Strisciò fino alla gommapiuma gialla e si sdraiò coprendosi con la copertina sottile, chiuse gli occhi aggrappandosi al nulla, aggrappandosi ai sogni.

Il tempo passò.

Aveva quindici anni, e sua madre stava morendo, e cercava di dirgli qualcosa di molto importante che lui non riusciva a capire. Nel sonno si agitò e una fitta di dolore lo portò dallo stato di sonno inquieto a quello di veglia inquieta e trasalì.

Rabbrividiva, sotto la copertina. Con il braccio destro si coprì gli occhi per ripararsi dalla luce. Si domandò se Wednesday e gli altri fossero ancora liberi, se fossero ancora vivi. Si augurava di sì.

Il dollaro d’argento restava freddo nella sua mano sinistra. Ne sentiva la presenza, come l’aveva sentita durante il pestaggio. Si chiese come mai non si riscaldasse a contatto con il corpo. Poiché era mezzo addormentato, adesso, e un po’ delirante, il dollaro, l’idea della libertà, la luna e Polunochnaja Zarja in qualche modo si mescolarono trasformandosi in un raggio tessuto di luce argentea che brillava dalle profondità della terra alla volta celeste e lui vi si arrampicò cominciando ad allontanarsi dal dolore e dall’infelicità e dalla paura, via dal dolore e di nuovo dentro il sogno benedetto…

Da lontano gli giungeva una specie di rumore, ma era troppo tardi per pensarci: ormai apparteneva al sonno.

Un pensiero a metà: sperava che non stessero venendo a svegliarlo, a picchiarlo o a gridargli nelle orecchie. E poi, notò con piacere, stava davvero dormendo e non aveva più freddo.

Qualcuno nel suo sogno oppure fuori stava chiedendo aiuto a gran voce.

Dormendo rotolò sul materassino e nel muoversi si accorse di altri punti dolenti del corpo.

Lo stavano scrollando per una spalla.

Avrebbe voluto chiedere di non essere svegliato, che lo lasciassero dormire in pace, ma tutto quello che gli uscì di bocca fu un grugnito.

«Cucciolo?» chiamò Laura. «Ti devi svegliare. Ti prego, svegliati, caro.»

Fu un momento di leggero sollievo. Aveva fatto un sogno così strano, con la prigione e i detenuti e gli dèi male in arnese e adesso Laura lo stava svegliando per dirgli che era ora di andare a lavorare, e forse prima di uscire ci sarebbe stato tempo per una tazza di caffè e un bacio, o magari qualcosa di più di un bacio, e allungò una mano per toccarla.

Era fredda come il ghiaccio e la sua pelle era appiccicosa.

Aprì gli occhi.

«Da dove viene tutto questo sangue?» chiese.

«È di altra gente» rispose lei. «Non è mio. Io sono piena di formaldeide mista a glicerina e lanolina.»

«Quale altra gente?»

«Le guardie. E tutto a posto. Li ho ammazzati. Ma è meglio sbrigarsi. Credo di non aver lasciato a nessuno il tempo di dare l’allarme. Prendi un cappotto, altrimenti ti si congela il sedere.»

«Li hai ammazzati?»

Laura scrollò le spalle e fece un mezzo sorriso impacciato. Sembrava che avesse dipinto con le dita un’opera interamente rossa; aveva macchie rosse sul viso e sui vestiti (lo stesso tailleur blu con cui era stata sepolta) e a Shadow fece venire in mente Jackson Pollock, perché era meno problematico pensare a Pollock che accettare l’alternativa.

«Da morti, uccidere diventa più facile» gli spiegò. «Non è poi tutta questa tragedia, voglio dire. Non si hanno più tanti pregiudizi.»

«Per me è ancora una tragedia» disse Shadow.

«Vuoi stare qui ad aspettare che arrivino quelli del turno di giorno?» gli chiese lei. «Puoi farlo, se vuoi. Credevo che volessi scappare.»

«Penseranno che sia stato io» disse lui, stupidamente.

«Può darsi. Adesso mettiti un cappotto, caro. Altrimenti gelerai.»

Shadow imboccò il corridoio e in fondo vide una stanza. Dentro c’erano quattro cadaveri: tre guardie e l’uomo che aveva detto di chiamarsi Stone. Il suo amico Wood non era nei paraggi. Dalle strisce di sangue sul pavimento due uomini erano stati trascinati nella stanza e lasciati cadere per terra.

All’attaccapanni era appeso anche il suo cappotto. Il portafogli era ancora nella tasca interna, apparentemente intatto. Laura aprì un paio di scatole piene di merendine.

Le guardie, adesso Shadow riusciva a vederle bene, indossavano tute mimetiche scure ma prive di targhette ufficiali, niente che rivelasse per chi lavoravano. Avrebbero perfino potuto essere cacciatori di anatre, vestiti per la battuta domenicale.

Laura tese una mano gelida e strinse quella di Shadow. Portava intorno al collo la moneta d’oro che lui le aveva regalato, infilata in una catenina.

«Ti sta bene» le disse.

«Grazie.» Laura sorrise con garbo.

«Che ne è stato degli altri, Wednesday, e tutti quanti? Dove sono?» Laura gli porse una manciata di merendine e lui se ne riempì le tasche.

«Qui non c’era nessun altro. Un mucchio di celle vuote e una con dentro te. Oh, e uno degli uomini era andato a farsi una sega in una cella là in fondo portandosi una rivista. Gli è preso un colpo.»

«Lo hai ammazzato mentre si stava masturbando?»

Laura scrollò le spalle. «Credo di sì» disse, a disagio. «Avevo paura che ti facessero del male. Qualcuno ti deve pur proteggere, e ti avevo detto che lo avrei fatto io, giusto? Tieni, prendi questi.» Erano scaldini chimici: cuscinetti sottili, rompevi il sigillo e si riscaldavano e restavano caldi per ore. Shadow infilò in tasca anche quelli.

«Proteggermi? Sì» disse, «lo hai fatto.»

Lei lo accarezzò con un dito sul sopracciglio sinistro. «Sei ferito.»

«Niente di grave.»

Aprì una porta di metallo. Il battente si mosse lentamente. C’era un salto di più di un metro fino a terra e Shadow cadde su una superficie che sembrava ghiaiosa. Afferrò Laura alla vita, la fece volteggiare come faceva un tempo, con facilità, senza riflettere…

La luna spuntò dietro una nuvola densa. Era bassa all’orizzonte, pronta a sorgere, ma la luce che gettava sulla neve era sufficiente per vedere.

Erano saltati giù dalla carrozza dipinta di nero di un lungo treno merci parcheggiato o abbandonato su un binario di raccordo in un terreno boscoso. Le carrozze si perdevano a vista d’occhio in mezzo agli alberi. Lo avevano imprigionato in un treno. Ci sarebbe dovuto arrivare prima.

«Come diavolo hai fatto a trovarmi?» chiese alla sua defunta moglie.

Laura scosse la testa divertita. «Brilli come una stella nell’oscurità. Non è stato difficile. Adesso vai. Va’ il più lontano e il più in fretta possibile. Se non usi le carte di credito andrà tutto bene.»

«E dove dovrei andare?»

Lei si passò una mano tra i capelli sporchi di sangue, per allontanarli dagli occhi. «La strada è da quella parte» disse. «Fai del tuo meglio. Ruba una macchina, se è necessario. Vai verso sud.»

«Laura» cominciò Shadow, poi ebbe un attimo di esitazione prima di riprendere. «Ma tu sai che cosa sta succedendo? Sai chi è questa gente? Sai chi hai ucciso?»

«Sì. Credo di saperlo.»

«Ti devo la vita» disse lui. «Se non fossi venuta tu sarei ancora lì dentro. E non penso che avessero in serbo qualcosa di buono, per me.»

«No. Non credo proprio.»

Si allontanarono dai vagoni vuoti e Shadow pensò a tutti i treni che aveva visto passare, altri vagoni di metallo senza finestre che correvano solitari nella notte, preceduti, chilometro dopo chilometro, dal grido della sirena. Strinse il dollaro della Libertà che teneva in tasca e ripensò a Polunochnaja Zarja, al modo in cui lo aveva guardato, al chiaro di luna. Le hai chiesto che cosa voleva? È la cosa più saggia da chiedere ai morti. A volte te lo dicono.