Neil Gaiman
American Gods
Agli amici assenti… Katy e Roger Zelazny, e a tutto quello che ci sta in mezzo.
Avvertenza per i viaggiatori
Non è una guida, questo libro, ma un’opera di narrativa, e sebbene nella narrazione emerga una geografia degli Stati Uniti che non è completamente inventata — molti luoghi esistono e vi sono sentieri che possono essere percorsi o tracciati — mi sono preso qualche libertà, meno di quelle che si potrebbe pensare, però me le sono prese.
Non ho chiesto a nessuno autorizzazioni a inserire attrazioni turistiche che esistono davvero: è probabile che i proprietari di Rock City, della House on the Rock e i cacciatori che possiedono il motel al centro dell’America si stupiscano di vederli qui.
Di altri luoghi, invece, ho cambiato l’ubicazione: la città di Lakeside, per esempio, e la fattoria con il frassino a un’ora da Blacksburg. Chi vuole potrà provare a cercarle, e magari le troverà.
Va da sé che tutte le persone, vive o morte, nominate nel libro, sono frutto della mia immaginazione, oppure usate in modo immaginario. Soltanto gli dèi sono reali.
Mi sono sempre chiesto che cosa succeda agli esseri di natura divina quando gli emigranti lasciano la terra natale. Gli americani di origine irlandese ricordano le fate, quelli di origine norvegese i nisser, quelli di origine greca le vrykólakas, ma soltanto in relazione a eventi legati al paese d’origine. Un giorno, quando domandai perché in America non si avessero notizie di questi esseri, le mie fonti ridacchiarono confuse, prima di rispondere: «Hanno paura di attraversare l’oceano, è troppo lontana, l’America», e poi mi fecero notare che qui, in fondo, non erano venuti nemmeno Cristo e gli Apostoli.
Parte prima
Le ombre
Nota del traduttore
I nomi degli dèi sono teofanie, e questo libro è pieno di dèi. Si è scelto di usare la grafia dei nomi con cui essi sono più comunemente noti, anche se non sempre corrisponde alla grafia italiana corretta.
1
I confini del nostro paese, signore? Ebbene, signore, a nord confiniamo con l’aurora boreale, a est con il sole nascente, a sud con la processione degli equinozi e a ovest con il Giorno del Giudizio.
Era in prigione da tre anni, Shadow. E siccome era abbastanza grande e grosso e aveva sufficientemente l’aria di uno da cui è meglio stare alla larga, il suo problema era più che altro come ammazzare il tempo. Perciò faceva ginnastica per tenersi in forma, imparava i giochi di prestigio con le monete e pensava un sacco a sua moglie e a quanto la amava.
L’aspetto più positivo del fatto di essere in prigione, secondo lui — forse l’unico aspetto positivo — era una certa sensazione di sollievo. Sollievo all’idea di aver toccato il fondo. Non si doveva più preoccupare di essere preso, perché era già stato preso. Non aveva più paura di ciò che avrebbe potuto riservargli il futuro, perché il passato vi aveva già provveduto.
Non era importante, se si era davvero colpevoli del reato per cui ti avevano messo dentro. Gli uomini che aveva incontrato in quei tre anni non si davano pace: c’era sempre un particolare che le autorità avevano frainteso, pensavano, qualcosa che secondo loro avevi fatto mentre tu non l’avevi fatto per niente, oppure non esattamente nel modo in cui dicevano. La sola cosa importante era che ti avevano beccato.
Se n’era accorto durante i primi giorni, quando tutto gli risultava nuovo, dal gergo al cibo, infimo. Sotto l’infelicità e l’orrore estremo della sua nuova condizione provava un senso di sollievo.
Shadow aveva sempre cercato di parlare il meno possibile. A metà del secondo anno aveva esposto la sua teoria al compagno di cella, Low Key Lyesmith.
Low Key, un truffatore del Minnesota con la bocca sfregiata, gli aveva sorriso. «Sì. È vero. Se sei stato condannato a morte è addirittura meglio, e ti ricordi perfino delle barzellette sui tizi che scalciano via gli stivali quando gli stringono il cappio intorno al collo, perché gli amici dicevano sempre che sarebbero morti con gli stivali addosso.»
«Sarebbe una barzelletta?» aveva chiesto Shadow.
«Cazzo se lo è. Umorismo patibolare. Il migliore sulla piazza.»
«Quand’è che hanno impiccato qualcuno l’ultima volta, in questo stato?»
«E io come faccio a saperlo?» Lyesmith portava i capelli color carota così corti che gli si vedevano le linee del cranio. «Però ti posso dire una cosa. Quando hanno smesso di impiccare la gente questo paese ha cominciato ad andare a rotoli. Niente pendagli da forca. Niente buon esempio.»
Shadow si era limitato a scrollare le spalle. Lui non ci vedeva niente di romantico, in un’esecuzione capitale.
Se non vieni condannato a morte, aveva deciso, e se tutto va bene, la galera non è altro che uno stato di momentanea sospensione, e questo per due ragioni. Primo, la vita riesce a filtrare dentro la prigione. Non c’è limite al peggio. La vita continua. Secondo, se tieni duro a un certo punto ti dovranno rilasciare.
I primi tempi il momento del rilascio era troppo lontano perché Shadow potesse immaginarlo. Poi era diventato una speranza remota e aveva imparato a dire a se stesso "passerà anche questo" quando la galera, come succede sempre, diventava insopportabile. Un giorno il magico portone si sarebbe aperto e lui ne avrebbe varcato la soglia. Perciò segnava i giorni sul calendario con gli uccelli del Nordamerica, l’unico in vendita nello spaccio, e il sole tramontava e sorgeva senza che lui lo vedesse. Si esercitava con i giochi di prestigio illustrati in un manuale scovato in quella terra desolata che era la biblioteca del penitenziario, faceva ginnastica e mentalmente stilava la lista delle cose che avrebbe fatto appena fuori.
Con il passare del tempo la lista era diventata sempre più corta. Dopo due anni era ridotta a tre punti.
Primo, un bagno. Un bel bagno come si deve in una vasca piena di schiuma. Immerso nell’acqua forse avrebbe letto il giornale. Forse, però. A volte pensava di sì, a volte di no.
Secondo, si sarebbe asciugato, e poi avrebbe infilato l’accappatoio. Forse anche un paio di pantofole. L’idea delle pantofole gli piaceva. Se fosse stato un fumatore a quel punto avrebbe acceso la pipa, ma non fumava. Presa in braccio la moglie ("Cucciolo" avrebbe strillato lei fingendo di essere terrorizzata e provando un autentico piacere, "che cosa fai?"), l’avrebbe portata in camera da letto chiudendo la porta. In caso di fame avrebbero ordinato una pizza a domicilio.
Terzo, usciti dalla camera da letto, un paio di giorni dopo, magari, lui si sarebbe comportato bene, tenendosi lontano dai guai per il resto dei suoi giorni.
«E saresti felice, così?» gli aveva chiesto Low Key Lyesmith. Erano nell’officina a montare i beccatoi per gli uccelli, attività appena più interessante della punzonatura delle targhe automobilistiche.
«Nessun uomo può dirsi felice» aveva risposto Shadow «fino a quando non è morto.»
«Erodoto. Vedo che stai imparando.»
«Chi cazzo è Erodoto?» aveva chiesto l’Iceman unendo le pareti del beccatoio per passarlo a Shadow che le imbullonava e le avvitava con forza.
«Un greco morto.»
«La mia ultima fidanzata era greca» aveva detto l’Iceman. «Non puoi neanche immaginartela, la merda che si mangiava a casa sua. Tipo riso avvolto nelle foglie. Porcate così.»
L’Iceman aveva le dimensioni e la forma di un distributore di Coca-Cola, gli occhi azzurri e i capelli così biondi da sembrare bianchi. Aveva pestato a sangue un tizio colpevole di aver dato una palpatina alla sua ragazza nel locale dove lei ballava e lui faceva il buttafuori. Gli amici del tizio avevano chiamato la polizia che dopo aver arrestato l’Iceman aveva scoperto che diciotto mesi prima lui non era rientrato in carcere da un permesso di lavoro.