Выбрать главу

«Bel baule» disse Shadow. Prese le pastiglie amare e le inghiottì con un bicchiere d’acqua.

«Me l’ha mandato mio figlio» disse il signor Nancy. «È un bravo ragazzo. Non lo vedo quanto mi piacerebbe vederlo.»

«A me manca Wednesday» disse Shadow. «Nonostante tutto quello che ha fatto. Continuo ad aspettarmi di vederlo comparire, invece alzo gli occhi e lui non c’è.» Fissava il forziere dei pirati cercando di capire che cosa gli ricordasse.

Perderai molte cose. Non perdere queste. Chi gliel’aveva detto?

«Ti manca dopo quello che ti ha fatto passare? Dopo quello che ha fatto passare a tutti quanti?»

«Sì. Credo di sì. Pensa che tornerà?»

«Penso che ovunque due uomini uniscano le loro forze per vendere a un terzo uomo un violino di venti dollari alla cifra di diecimila, Wednesday sarà presente in spirito.»

«Sì, ma…»

«Meglio tornare in cucina» ribatté il signor Nancy con un’espressione impenetrabile e dura. «Quei tegami non si laveranno da soli.»

Lavò tegami e piatti, Shadow li asciugò e li ripose sugli scaffali. A un certo punto il mal di testa passò. Tornarono nel salotto.

Shadow fissava ancora il vecchio baule sforzandosi di ricordare. «Se non vado da Chernobog» domandò, «che cosa succederà?»

«Ci andrai» rispose piattamente il signor Nancy. «Oppure verrà lui da te. Farà in modo di portarti da lui. In un modo o nell’altro vi incontrerete.»

Shadow annuì. Qualche tessera del mosaico stava cominciando ad andare a posto. Un sogno, fatto sull’albero. «Ehi, esiste un dio con la testa da elefante?»

«Ganesh? È un dio indù. Rimuove gli ostacoli e agevola i viaggi. È anche un bravo cuoco.»

Shadow guardò in su. «È nel baule» disse. «Sapevo che era importante, ma non sapevo perché. Avevo pensato che si riferisse al tronco dell’albero e invece parlava del baule, giusto?»

Il signor Nancy aggrottò la fronte. «Non ti seguo.»

«È nel baule.» Sapeva che era vero. Non sapeva perché dovesse essere così, non ancora. Però ne aveva la certezza assoluta.

Si alzò. «Devo andare. Mi dispiace.»

Il signor Nancy inarcò un sopracciglio. «Perché tanta fretta?»

«Perché» rispose Shadow con semplicità «il ghiaccio si sta sciogliendo.»

20

è

primavera

e

il

capripede

palloNaro fischia

da

lon

tanis

simo.

E.E. CUMMINGS

A bordo di un’auto a noleggio Shadow uscì dalla foresta alle otto e trenta del mattino, percorse la discesa senza superare i settanta chilometri orari ed entrò nella città di Lakeside tre settimane dopo averla lasciata, sicuro che non ci sarebbe tornato mai più.

La attraversò, sorprendendosi di quanto poco fosse cambiata in quelle settimane, un’eternità, per lui, e parcheggiò a metà della carrozzabile che conduceva al lago. Poi scese dalla macchina.

Sul lago gelato non c’erano più le baracche dei pescatori, nessun fuoristrada, nessuno seduto davanti a un buco nel ghiaccio con la canna da pesca e una scorta di birra. Il lago era scuro: non più coperto dallo strato bianco di neve, adesso lasciava intravedere qua e là in superficie chiazze d’acqua sopra le quali si rifletteva la luce, e sotto il ghiaccio l’acqua era nera, mentre il ghiaccio era abbastanza trasparente da rivelare l’oscurità sottostante. Il cielo era grigio sopra il lago cupo e deserto.

Quasi deserto.

C’era ancora una macchina parcheggiata vicino al ponte, in una posizione tale che per chiunque attraversasse la città era impossibile non notarla. Era verde sporco, il tipo di macchina che la gente abbandona nei parcheggi. Le era stato levato il motore. Era il simbolo di una scommessa, in attesa che il ghiaccio, squagliandosi pericolosamente, la lasciasse inghiottire per sempre. In fondo alla breve carrozzabile c’era una catena, con un cartello che proibiva l’ingresso a pedoni e veicoli, GHIACCIO SOTTILE, c’era scritto, sopra una sequenza di simboli contrassegnati da una croce: niente macchine, niente pedoni, niente gatti delle nevi, PERICOLO.

Shadow ignorò il cartello e cominciò a scendere. L’argine era scivoloso, la neve si era già sciolta trasformando il terreno in fanghiglia e l’erba offriva scarsa aderenza. Continuando a scivolare, percorse con cautela un piccolo pontile di legno e da lì scese al lago.

Lo strato d’acqua sopra il ghiaccio, un’acqua fatta di ghiaccio e neve sciolti, era più spesso di quel che gli era sembrato dall’alto, e il lago era diventato peggio di una pista di pattinaggio, costringendo Shadow a lottare per restare in piedi. Affondò fino alle caviglie e l’acqua gli entrò negli stivali. Acqua ghiacciata che intorpidiva le membra. Mentre attraversava a fatica il lago ghiacciato Shadow provava uno strano distacco; era come se stesse guardando un film di cui lui era l’eroe: un investigatore, forse.

Si diresse verso la bagnarola, dolorosamente consapevole del fatto che lo strato di ghiaccio era ormai troppo sottile, e che l’acqua sotto era fredda quasi al punto di ghiacciarsi di nuovo. Continuò a camminare, scivolando e cadendo più volte.

Passò accanto a mucchi di bottiglie e lattine vuote e aggirò i buchi scavati dai pescatori, buchi che non si erano più richiusi, pieni di acqua nera.

La bagnarola era più lontana di quanto aveva pensato dalla strada. Sentì un forte crac provenire dalla parte meridionale del lago, il rumore del legno che si spezza, seguito da un suono sordo, come se qualcuno avesse fatto vibrare la corda di un contrabbasso grande come il lago. Uno scricchiolio imponente come quello di una gigantesca porta molto antica che protestava. Shadow proseguì sforzandosi di non cadere.

È un suicidio, gli sussurrò la voce della ragione in un angolo della mente. Non potresti lasciar perdere?

«No» disse a voce alta. «Devo sapere.» E continuò a camminare.

Arrivò alla bagnarola e, ancora prima di toccarla, capì di non essersi sbagliato. Intorno alla macchina aleggiava un miasma, un vago fetore di putrefazione che prendeva anche alla gola. Fece il giro e guardò dentro. I sedili erano tutti rotti e macchiati. L’abitacolo era vuoto. Cercò di aprire le portiere. Erano chiuse con la sicura. Provò il bagagliaio. Chiuso anche quello.

Rimpianse di non aver portato con sé un piede di porco.

Strinse una mano a pugno dentro al guanto, contò fino a tre e colpì forte il finestrino dal lato del volante.

La mano gli faceva male ma il finestrino era rimasto intatto.

Pensò di prendere la rincorsa e dare un calcio al vetro; certo così sarebbe riuscito a romperlo, se non fosse scivolato. L’ultima cosa che desiderava era disturbare troppo la bagnarola facendo cedere il ghiaccio su cui era appoggiata.

La guardò. Poi si avvicinò all’antenna della radio — il tipo di antenna che sale e scende, bloccata in alto da almeno dieci anni — e dopo averla un po’ scossa riuscì a spezzarla alla base. Afferrò l’estremità più sottile, dove una volta doveva esserci stato un pulsantino metallico ormai scomparso, e la piegò a gancio.

Riuscì a infilarla tra il vetro e la gomma di protezione del finestrino spingendola fino alla sicura. Armeggiò, annaspò alla cieca fino a quando il gancio di metallo non si strinse intorno alla chiusura, e a quel punto tirò.

Sentì che il gancio improvvisato perdeva la presa.

Sospirò e ripeté l’operazione, più lentamente, con più attenzione. Gli sembrava di sentire il ghiaccio lamentarsi quando spostava il peso da un piede all’altro. E piano… piano…

L’aveva agganciato. Tirò verso l’alto e la sicura della portiera scattò. Shadow cercò di aprirla con la mano guantata, impugnò la maniglia e tirò; la portiera non cedeva.