Vechernjaja Zarja prese cinque scodelle e mise dentro ciascuna una patata bollita con la buccia su cui versò un’abbondante porzione di borsch dal violento color cremisi. Aggiunse un cucchiaio di panna acida in ogni scodella e le servì.
«Credevo che fossimo in sei» disse Shadow.
«Polunochnaja Zarja dorme ancora» disse Vechernjaja Zarja. «Le teniamo la cena in frigorifero. Mangerà quando si alza.»
Nel borsch c’era troppo aceto, sembrava di mangiare barbabietole in salamoia. La patata bollita era farinosa.
Per secondo c’era un brasato coriaceo accompagnato da verdure non meglio identificate, bollite così a lungo e in modo così efficace che nessuno, nemmeno con il più grande sforzo di immaginazione, le avrebbe potute riconoscere, essendo praticamente ridotte in poltiglia.
Poi c’erano foglie di verza stufate con carne macinata e riso, foglie talmente dure da non poter essere tagliate senza spargere carne e riso su tutto il tappeto. Shadow spostò la sua nel piatto senza mangiarne.
«Abbiamo giocato a dama» disse Chernobog servendosi un altro blocchetto grumoso di brasato. «Io e il giovanotto. Lui ha vinto una partita. Io ne ho vinto un’altra. Siccome ha vinto vado con lui e Wednesday, e li aiuto nella loro follia. E siccome ho vinto anch’io, quando sarà tutto finito potrò ucciderlo con un colpo di mazza.»
Le due Zarja annuirono gravemente. «Un vero peccato» commentò Vechernjaja Zarja rivolgendosi a Shadow. «Se ti avessi letto la sorte avrei previsto per te una lunga vita felice, con molti figli.»
«È per questo che sei brava a leggere il futuro» disse Utrennjaja Zarja. Aveva un’aria assonnata, come se restare sveglia fino a quell’ora le costasse uno sforzo. «Sei la più brava a dire bugie.»
Finito di mangiare, Shadow aveva ancora fame. Il cibo che gli davano in carcere, pur pessimo, era sempre meglio di questo.
«Ottimo» disse Wednesday dopo aver ripulito il piatto con palese soddisfazione. «Vi ringrazio, gentili signore. E ora temo che il dovere ci imponga di chiedervi di indicarci un buon albergo nei dintorni.»
Vechernjaja Zarja assunse un’aria offesa. «Perché mai andare in albergo? Non siamo forse tuoi amici?»
«Non vorrei disturbare…» disse Wednesday.
«Nessun disturbo» intervenne Utrennjaja Zarja sbadigliando e giocherellando con quei suoi capelli dal biondo tanto incongruo.
«Tu puoi dormire nella stanza di Bielebog» disse Vechernjaja Zarja, indicando Wednesday. «È vuota. In quanto a te, giovanotto, ti preparerò il letto sul divano. Starai più comodo che in un letto di piume. Lo giuro.»
«È molto gentile da parte vostra» rispose Wednesday. «Accettiamo.»
«E mi dai quello che pagheresti per l’albergo» continuò Vechernjaja Zarja con uno scatto trionfante della testa. «Cento dollari.»
«Trenta».
«Cinquanta.»
«Trentacinque.»
«Quarantacinque.»
«Quaranta.»
«D’accordo. Quarantacinque dollari.» Vechernjaja Zarja si protese e strinse la mano di Wednesday, poi cominciò a sparecchiare. Utrennjaja Zarja sbadigliava tanto che Shadow si preoccupò per la sua mascella, poi annunciò che andava a letto perché stava per addormentarsi con la faccia nel piatto e disse buonanotte a tutti.
Shadow aiutò Vechernjaja Zarja a portare piatti e scodelle nel cucinino dove sotto l’acquaio trovò, con sua grande sorpresa, una vecchia lavastoviglie che cominciò a riempire. Affrettandosi a togliere le scodelle dì legno Vechernjaja Zarja lo guardò con aria di disapprovazione. «Queste vanno nel lavandino» disse.
«Mi dispiace.»
«Non preoccuparti. Adesso torniamo di là a mangiare la torta.»
La torta, un’apple pie comperata in pasticceria e riscaldata nel forno, era molto, molto buona. La mangiarono con il gelato e poi Vechernjaja Zarja fece uscire tutti e preparò sul divano un giaciglio molto confortevole. Wednesday parlò con Shadow nel corridoio.
«Prima, quello che hai fatto con la dama» disse.
«Sì?»
«Ben fatto. Molto stupido da parte tua. Anzi, stupidissimo. Ma ben fatto. Dormi bene.»
Nel minuscolo bagno Shadow si lavò i denti e la faccia con l’acqua fredda, poi tornò in salotto, spense la luce e si addormentò ancor prima di avere appoggiato la testa sul cuscino.
C’erano esplosioni, nel sogno: Shadow guidava un camion in un campo minato e le mine scoppiavano da tutte le parti. Il parabrezza andò in frantumi e lungo la faccia gli scorreva un rivolo di sangue.
Qualcuno gli stava sparando.
Un proiettile gli perforò un polmone, un altro gli frantumò la spina dorsale, un altro gli si conficcò nella spalla. Li sentì entrare, a uno a uno. Si accasciò sul volante.
L’ultima esplosione culminò nella tenebra.
Dev’essere un sogno, pensò, solo, al buio. Credo di essere morto. Ricordò di aver sentito dire, da bambino, credendoci, che se muori in sogno muori anche nella realtà. Però in quel momento non si sentiva morto. Provò ad aprire gli occhi.
Nel piccolo salotto, in piedi davanti alla finestra, c’era una donna. Col cuore in gola la chiamò. «Laura?»
La donna si voltò, incorniciata dalla luna. «Mi dispiace» disse. «Non volevo svegliarti.» Aveva un lieve accento dell’Europa dell’Est. «Me ne vado subito.»
«No, resta» disse Shadow. «Non mi hai svegliato. Stavo sognando.»
«Sì. Gridavi, gemevi. Avrei voluto scuoterti, ma poi mi sono detta, no, devo lasciarlo stare.»
Aveva i capelli chiari, quasi bianchi alla debole luce lunare. Indossava una camicia da notte di cotone bianco con un colletto alto, di pizzo, lunga fino ai piedi. Shadow si mise seduto, completamente sveglio. «Tu sei Zarja Polu…» esitò «la sorella che dormiva.»
«Sì, sono Polunochnaja Zarja. E tu ti chiami Shadow, vero? Così mi ha detto Vechernjaja Zarja quando mi sono svegliata.»
«Sì. Che cosa stavi guardando, là fuori?»
Lei gli fece cenno di avvicinarsi alla finestra. Si voltò quando lui si infilò i jeans. Le si avvicinò. Sembrava un lungo percorso, per una stanza così piccola.
Non riusciva a capire quanti anni avesse. La sua pelle era levigata, gli occhi scuri con le ciglia lunghe e folte, i capelli bianchi lunghi fino alla vita. La luce della luna attenuava i colori trasformandoli in spettri di se stessi. Era più alta delle sorelle.
Gli indicò il cielo. «Stavo guardando quella» disse puntando il dito. «La vedi?»
«L’Orsa Maggiore» disse lui.
«È un modo di vedere le cose» disse. «Che non è quello del posto da cui provengo io. Vado a sedermi sul tetto. Vuoi venire con me?»
Aprì la finestra e si arrampicò, scalza, sulla scala antincendio. Il vento era gelido. C’era qualcosa che inquietava Shadow, ma non sapeva che cosa; esitò, poi si infilò maglione, calze e scarpe e seguì la donna sulla scala arrugginita. Lei lo stava aspettando. Nell’aria fredda il fiato di Shadow sembrava vapore. La guardò salire a piedi nudi gli scalini di metallo ghiacciati e la seguì su fino al tetto.
Le raffiche di vento le incollavano la camicia da notte al corpo, e Shadow si rese conto con disagio che, sotto, Polunochnaja Zarja non indossava niente.
«Non soffri il freddo?» le chiese quando arrivarono in cima alle scale e il vento sferzava via le sue parole.
«Come?»
Chinò il viso verso di lui. Aveva un alito dolce.
«Ti ho domandato se non senti freddo.»
In risposta lei alzò un dito: "aspetta", sembrava dire. Con un balzo leggero saltò sul tetto. Salì anche Shadow, meno leggiadramente, e la seguì fino all’ombra della cisterna dell’acqua. Lì li aspettava una panchina di legno; lei vi si sedette e lui la imitò. La cisterna li riparava dal vento e Shadow gliene fu grato.
«No» disse lei. «Non soffro il freddo. Questo è il mio tempo: di notte mi sento a mio agio, come un pesce nell’acqua.»
«La notte ti deve piacere molto» disse lui rammaricandosi subito di non aver detto qualcosa di più saggio e profondo.
«Le mie sorelle appartengono al loro tempo. Utrennjaja Zarja appartiene all’alba. Nel nostro paese si svegliava per aprire i cancelli e far uscire nostro padre con il… mi dimentico sempre questa parola, è come una carrozza a cavalli?»