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È dura la vita

Quanta pena e fatica

E la barba sempre da fare

Burma Shave

diceva un cartellone, e l’altro:

Gli prese la mania di sorpassare

Ma la strada era tutta curve

Così adesso il suo unico vicino

è il becchino…

Burma Shave

e adesso erano in fondo a una rampa e davanti a loro c’era una gelateria. Era aperta, in teoria, ma la ragazza che stava lavando i ripiani aveva un’espressione chiusa, quindi passarono oltre ed entrarono in un bar pizzeria deserto, con un unico avventore, un anziano uomo di colore con un completo a vistosi quadretti e un paio di guanti giallo canarino. Era piccolo e magro, il tipo di ometto che con il passare degli anni sembra rinsecchirsi, però stava mangiando un’enorme coppa di gelato tuttigusti accompagnata da una tazza di caffè di proporzioni gigantesche. Nel portacenere sul tavolo bruciava un sigarette nero.

Wednesday disse a Shadow: «Tre caffè» e andò in bagno.

Shadow prese i caffè e li portò dove si era seduto Chernobog, cioè al tavolo con il vecchietto. Chernobog stava fumando con aria furtiva una sigaretta, come se temesse di essere colto sul fatto. L’altro mangiava felice il gelato, ignorando il suo sigaretto nel portacenere, ma quando Shadow si avvicinò lo prese, fece un tiro profondo e soffiò due anelli di fumo — uno grande, e un altro, più piccolo, che si infilò perfettamente nel primo — e sorrise come se fosse eccezionalmente soddisfatto di sé.

«Shadow, questo è il signor Nancy» disse Chernobog.

Il vecchio si alzò e tese la mano destra guantata di giallo. «Piacere di conoscerti» disse con un sorriso smagliante. «Credo di sapere chi sei. Lavori per il vecchio bastardo Monocolo, vero?» Nella sua voce c’era un leggero accento, una cantilena che avrebbe potuto essere delle Indie Occidentali.

«Lavoro per il signor Wednesday, sì» rispose Shadow. «Stia pure comodo.»

Chernobog fumava la sua sigaretta.

«Penso» annunciò con voce tetra «che a quelli come noi piace fumare perché ci ricorda le offerte che una volta bruciavano in nostro onore, il fumo che saliva quando venivano a chiedere la nostra approvazione o il nostro favore.»

«A me non hanno mai offerto niente del genere» disse Nancy. «Al massimo potevo sperare in un cesto di frutta, o magari un po’ di capra al curry, un bicchierone di qualcosa di freddo da bere, e una donnina con due tette belle sode che mi tenesse compagnia.» Sorrise con i suoi denti candidi e strizzò l’occhio a Shadow.

«Di questi tempi» riprese Chernobog senza cambiare espressione «non abbiamo niente.»

«Be’, non mi portano nemmeno metà della frutta che mi portavano una volta» disse il signor Nancy con gli occhi che brillavano. «Però nel mondo non hanno ancora inventato niente che valga una bella donnina con le tette sode. C’è chi dice che è il sedere che va esaminato per primo, ma per me sono sempre le tette che riescono a mettermi in moto in una mattina fredda.» Nancy cominciò a ridere, una risata genuina, secca e sibilante, e Shadow, suo malgrado, lo trovò simpatico.

Wednesday tornò dal bagno e strinse la mano a Nancy. «Vuoi qualcosa da mangiare, Shadow? Una fetta di pizza? Un panino?»

«Non ho fame.»

«Lascia che ti dica una cosa» si intromise il signor Nancy. «Può passare molto tempo tra il pranzo e la cena, perciò quando qualcuno ti offre del cibo devi dire di sì. Io non sono più un giovanotto, eppure ti assicuro che non dico mai di no alla possibilità di pisciare, mangiare o schiacciare un pisolino di mezz’ora. Mi segui?»

«Sì. Ma non ho fame, davvero.»

«Sei grande e grosso» disse Nancy fissando con i suoi vecchi occhi color mogano quelli grigio chiaro di Shadow, «grande e scemo, devo dire, non mi sembri per niente sveglio. Ho un figlio, stupido che più stupido non si può, e tu me lo ricordi.»

«Se non le dispiace lo prendo come un complimento» disse Shadow.

«Ti sembra un complimento essere chiamato scemo come chi è rimasto a dormire il giorno in cui distribuivano l’intelligenza?»

«Pensavo di più al fatto di essere paragonato a un membro della sua famiglia.»

Il signor Nancy spense il sigaretto, poi scacciò un immaginario puntolino di cenere da un guanto. «Forse ripensandoci non sei il tipo peggiore che il vecchio Monocolo si potesse procurare.» Guardò Wednesday. «Hai qualche idea di quanti saremo, stasera?»

«Ho mandato il messaggio a quelli che sono riuscito a contattare» rispose l’altro. «Ovviamente non ce la faranno tutti. E qualcuno» indicò Chernobog con un’occhiata «magari non vuole venire. Penso che ce ne potremmo aspettare qualche decina senza problemi. E ci sarà un passaparola.»

Superarono una mostra di armature («falsi vittoriani» dichiarò Wednesday davanti alle bacheche, «falsi moderni, elmo del dodicesimo secolo sopra una riproduzione del diciassettesimo, lungo guanto sinistro di ferro del quindicesimo…») e poi Wednesday aprì una porta con la scritta "Uscita" e fece fare a tutti il giro dell’edificio («Io non mi ci raccapezzo con tutti questi fuori e dentro» disse Nancy, «non sono più giovane come una volta e poi vengo da climi più miti»), percorsero una passerella coperta, uscirono da un’altra porta e arrivarono nella Sala del Carosello.

La musica proveniva da un organetto, un’esecuzione commovente e ogni tanto dissonante di un valzer di Strauss. Sul muro appena dentro la sala erano appesi antichi cavalli delle giostre, centinaia di cavalli, alcuni bisognosi di una mano di vernice, altri di una bella ripulita; sopra i cavalli pendevano decine di angeli, con tanto d’ali, ricavati evidentemente da manichini; alcuni mostravano il petto asessuato, altri avevano perso la parrucca e fissavano, calvi e ciechi, dal buio.

E poi c’era il carosello.

Un cartello spiegava che si trattava della più grande giostra del genere al mondo, ne specificava il peso e il numero delle lampadine che scendevano in gotica profusione dal lampadario centrale, e proibiva a chiunque di salire o montare gli animali.

E che animali! Shadow rimase a fissare sbalordito lo spettacolo di centinaia di creature a grandezza naturale che occupavano la piattaforma della giostra. Creature reali, creature immaginarie, e trasformazioni delle due categorie: ognuna diversa dall’altra. Vide una sirena e un tritone, un centauro e un unicorno, elefanti (uno enorme e uno minuscolo), un bulldog, una rana e una fenice, una zebra, una tigre, manticora e basilisco, cigni che trainavano una carrozza, un bue bianco, una volpe, due trichechi gemelli, anche un serpente marino, tutti dipinti con colori vivaci e più che realistici: e tutti giravano sulla piattaforma mentre un valzer finiva e un altro ricominciava. La giostra non rallentava nemmeno.

«Ma che senso ha?» chiese Shadow. «D’accordo, voglio dire, è la più grande del mondo, ci sono centinaia di animali, migliaia di lampadine, e continua a girare, però nessuno ci può salire.»

«Non è qui perché qualcuno ci salga, perlomeno non la gente comune» rispose Wednesday. «È qui per essere ammirata. E qui per essere.»

«Come la ruota della preghiera che gira all’infinito» aggiunse il signor Nancy. «Accumulando potere.»

«Dov’è che dobbiamo incontrare gli altri?» domandò Shadow. «Credevo che avessi detto che li avremmo incontrati qui. Invece non c’è nessuno.»