Salim comincia a parlare. «Una sera tardi mia nonna è tornata a casa raccontando di aver visto un ifrit, o forse un marid, nel deserto. Noi le abbiamo detto che doveva essersi trattato di una tempesta di sabbia, o del vento, ma lei giurava, diceva di no, diceva di averlo visto in faccia e che nei suoi occhi bruciavano fiamme, come nei tuoi.»
Il tassista sorride, ma siccome gli occhiali scuri gli nascondono gli occhi Salim non sa dire se in quel sorriso ci sia davvero un po’ di buon umore. «Anche le nonne vengono qui» dice.
«Ci sono molti jinn a New York?» chiede Salim.
«No. Non siamo in molti.»
«Ci sono gli angeli, e ci sono gli uomini, che Allah ha creato dal fango, poi c’è il popolo del fuoco, i jinn» dice Salim.
«In questo posto la gente non sa niente di noi» dice il tassista. «Credono che possiamo esaudire i desideri. Pensi che starei al volante di un taxi, se fossi capace di esaudire i desideri?»
«Non capisco.»
Il tassista sembra depresso. Salim lo fissa nello specchietto, osservando le sue labbra scure, mentre parla.
«Credono che possiamo esaudire i desideri. Come fanno a credere una cosa simile? Io dormo in una lurida stanzetta a Brooklyn. Guido questo taxi per qualsiasi lurido scombinato che abbia i soldi per pagarsi una corsa e anche per quelli che i soldi non ce li hanno. Li porto dove devono andare e qualche volta mi danno la mancia. A volte mi pagano.» Il suo labbro inferiore ebbe un fremito. Sembrava esausto. «Un giorno un cliente mi ha cacato sul sedile. L’ho dovuto ripulire, prima di riportare la macchina nell’autorimessa. Perché mi ha fatto una cosa simile? Ho dovuto togliere la merda dal sedile. Ti sembra giusto?»
Salim allunga una mano e gli dà una pacca sulla spalla. Sotto il maglione sente una muscolatura solida. L’ifrit stacca una mano dal volante e l’appoggia per un momento su quella di Salim.
Salim pensa al deserto: sabbia rossa soffiata dal vento tra i suoi pensieri, e la seta scarlatta delle tende montate intorno alla perduta città di Ubar sbatte e gli si agita nella mente.
Arrivano all’Ottava Avenue.
«I vecchi credono. Non pisciano nei buchi perché il Profeta ha detto che lì vivono i jinn. Sanno che gli angeli ci tirano addosso le stelle infuocate, quando cerchiamo di ascoltare i loro discorsi. Ma anche per i vecchi, quando arrivano in questo paese, noi diventiamo molto, molto distanti. In patria non ero costretto a guidare un taxi.»
«Mi dispiace» dice Salim.
«È un brutto momento. C’è tempesta, in arrivo. Sono spaventato. Farei qualsiasi cosa per potermene andare via.»
Mentre si avvicinavano all’albergo non dissero più niente.
Quando scese dal taxi Salim diede all’ifrit una banconota da venti dollari dicendogli di tenere il resto. Poi, in un inaspettato impeto di coraggio, gli disse anche il numero della sua camera. Il tassista non rispose. Una giovane donna salì sulla macchina che ripartì nel freddo, sotto la pioggia.
Le sei di sera. Salim non ha ancora scritto il fax al cognato. Torna fuori nella pioggia, si compera kebab e patatine per la cena. È qui da una settimana appena, ma ha già l’impressione che questa terra newyorkese lo stia facendo diventare più grassoccio, più flaccido.
Quando rientra in albergo è sorpreso di vedere il tassista nell’ingresso, in piedi, con le mani affondate nelle tasche, che osserva le cartoline in bianco e nero. Quando vede Salim l’uomo sorride, imbarazzato. «Ti ho fatto chiamare» dice, «ma in camera non rispondeva nessuno. Così ho pensato di aspettarti.»
Salim ricambia il sorriso e gli sfiora un braccio. «Sono arrivato.»
Entrano insieme nell’ascensore illuminato fiocamente da una luce verdastra e salgono fino al quinto piano tenendosi per mano. L’ifrit gli chiede di usare il bagno. «Mi sento sporchissimo.» Salim fa segno di sì con la testa. Siede sul letto, che occupa gran parte della piccola camera bianca e rimane ad ascoltare il rumore dell’acqua che scorre nella doccia. Si toglie le scarpe, le calze, il resto.
Il tassista esce dalla doccia ancora umido e con un asciugamano avvolto intorno ai fianchi. Non porta gli occhiali e nella debole luce della stanza le fiamme nei suoi occhi bruciano scarlatte.
Salim respinge le lacrime. «Vorrei che tu potessi vedere quello che vedo io» dice.
«Non posso esaudire i desideri» sussurra l’ifrit lasciando cadere per terra l’asciugamano e spingendo Salim con gentilezza, ma irresistibilmente, sul letto.
È passata più di un’ora quando l’ifrit gli viene in bocca con colpi violenti. Salim è già venuto due volte. Il seme del jinn ha un sapore strano, è infuocato e gli brucia la gola.
Salim va in bagno a sciacquarsi la bocca. Quando torna, il tassista sta russando tranquillo nel letto bianco. Salim gli si rannicchia vicino, immaginando il deserto sulla sua pelle.
Mentre sta per addormentarsi gli viene in mente che non ha ancora scritto a Fuad e prova un senso di colpa. Dentro si sente vuoto, e solo: allunga una mano e la posa sul cazzo dell’ifrit, ancora tumido e, un po’ confortato, si addormenta.
Nel cuore della notte si svegliano e fanno l’amore. A un certo punto Salim si accorge di piangere e l’ifrit gli asciuga le lacrime con baci infuocati. «Come ti chiami?» chiede al tassista.
«Sulla licenza del taxi c’è un nome, ma non è il mio» risponde l’ifrit.
Salim non riuscì a ricordare, dopo, dov’era finito il sesso e dov’era cominciato il sogno.
Quando si sveglia un sole freddo illumina la camera bianca ed è solo.
Inoltre è sparito il campionario, tutti i souvenir, le bottigliette e gli anelli e le torce elettriche di rame, tutto scomparso insieme a valigia, portafogli, passaporto e biglietto di ritorno per l’Oman.
Per terra trova un paio di jeans, una maglietta e il maglione di lana color polvere. Sotto gli indumenti c’è una patente con il nome di Ibrahim bin Irem, la licenza del taxi con lo stesso nome e un portachiavi con l’indirizzo scritto su un pezzettino di carta, in inglese. L’uomo nelle fotografie sulla patente e sulla licenza non gli somiglia, ma del resto non somigliava nemmeno all’ifrit.
Squilla il telefono: è la reception, comunicano che Salim ha lasciato l’albergo e anche il suo ospite dovrebbe liberare la stanza, in modo che il personale possa provvedere a pulirla e prepararla per il prossimo cliente.
«Io non posso esaudire i desideri» dice Salim assaporando il suono delle parole.
Mentre si veste sente la testa stranamente leggera.
New York è molto semplice, le avenue vanno da nord a sud, le strade da ovest a est. Che difficoltà ci possono essere? si chiede.
Lancia per aria le chiavi e le riprende al volo. Poi si infila gli occhiali da sole di plastica che ha trovato in una tasca ed esce per andare a cercare il suo taxi.
8
Quella sera a cena Shadow apprese che la settimana prima di Natale è sempre un periodo tranquillo per le imprese di pompe funebri. Erano seduti in un ristorantino a due isolati dalla Ibis Jacquel; Shadow stava facendo una colazione completa — c’erano anche le frittelle di mais — e il signor Ibis sbocconcellava una fetta di torta. Fu il signor Ibis a spiegarglielo. «Chi ha ancora qualche giorno di vita resiste per festeggiare l’ultimo Natale» disse «o addirittura il Capodanno, mentre gli altri, quelli che trovano l’allegria e i festeggiamenti altrui troppo dolorosi ma non sono stati portati veramente all’esasperazione dall’ennesima visione di La vita è meravigliosa, non hanno ancora la misura colma o meglio, direi, non hanno perso del tutto la proverbiale pazienza della renna.» E parlando fece un piccolo sbuffo compiaciuto come per lasciar intendere che quell’ultima dichiarazione era stata espressa in modo preciso e forbito e lui ne andava particolarmente fiero.