Pesò tutti gli organi, normali e intatti. Da ciascuno tagliò un campione che mise in un contenitore con formaldeide.
Dal cuore, dal fegato e da uno dei reni tagliò un altro pezzetto che si infilò in bocca e cominciò a masticare lentamente, facendoli durare, mentre lavorava.
Stranamente a Shadow sembrò una cosa giusta: un gesto rispettoso, per niente osceno.
«Dunque starai con noi per un po’?» domandò Jacquel mentre masticava la fettina di cuore della ragazza.
«Se mi volete» rispose Shadow.
«Certamente» disse il signor Ibis. «Non vedo perché dire di no con tutte le buone ragioni che abbiamo per dire sì. Finché resterai qui sarai sotto la nostra protezione.»
«Spero che dormire sotto lo stesso tetto con i defunti non ti disturbi» disse Jacquel.
Shadow pensò alle labbra fredde e amare di Laura. «No» disse. «Finché rimangono defunti.»
Jacquel si voltò a guardarlo: i suoi occhi scuri erano interrogativi e freddi come quelli di un cane del deserto. «Qui i morti restano morti» si limitò a dire.
«Io ho l’impressione che riescano a tornare indietro con una certa facilità.»
«Niente affatto» intervenne Ibis. «Anche gli zombie sono fatti a partire dai vivi. Un po’ di polvere, qualche incantesimo, qualche stimolo ed ecco lo zombie. Vivono, ma credono di essere morti. Riportare davvero alla vita un defunto, con il corpo e tutto, richiede molto potere.» Esitò, poi aggiunse: «Ai vecchi tempi, nella vecchia terra, era più facile».
«Si poteva legare il ka di un uomo al suo corpo per cinquemila anni» disse Jacquel. «Legarlo o liberarlo. Succedeva tanto tanto tempo fa.» Prese tutti gli organi che aveva tolto dal corpo della ragazza e rispettosamente li sistemò di nuovo nelle loro cavità. Rimise a posto gli intestini e lo sterno e avvicinò i lembi di pelle. Poi con un grosso ago e del filo la ricucì con gesti rapidi ed esperti, come se stesse cucendo una palla da basebalclass="underline" la massa di carne si trasformò di nuovo nel cadavere una ragazza.
«Ho bisogno di una birra» disse Jacquel. Si sfilò i guanti e li gettò nel recipiente. In una cesta lasciò cadere il camice marrone e poi prese il vassoio con i barattoli dei campioni degli organi: fettine rosse, marroni e violacee. «Venite con me?»
Salirono le scale che portavano in cucina. Era una stanza tutta marrone e bianca, sobria e rispettabile, che a Shadow sembrò molto anni Venti. Appoggiato a una parete c’era un enorme frigorifero Kelvinator che ronzava con fragore. Jacquel lo aprì, infilò su un ripiano i barattoli con i pezzetti di milza, rene, fegato e cuore e tirò fuori tre bottiglie scure. Ibis prese tre bicchieri alti da una credenza con le antine di vetro. Poi fece segno a Shadow di sedersi al tavolo.
Versò la birra e porse un bicchiere a Shadow, poi a Jacquel. Era un’ottima birra, amara e scura.
«Buona» disse Shadow.
«La facciamo noi» spiegò Ibis. «Ai vecchi tempi erano le donne a prepararla. Erano più brave. Ma adesso siamo rimasti solo in tre: io, lui, e lei.» Indicò la piccola gatta scura che dormiva placida dentro una cesta in un angolo. «Eravamo più numerosi, all’inizio. Ma Seth se n’è andato per esplorare il mondo, quando, duecento anni fa? Sì, devono essere almeno duecento. Ci ha mandato una cartolina da San Francisco nel 1905 o nel 1906. Poi più niente. Mentre il povero Horus…» Lasciò la frase in sospeso, sospirò e scosse la testa.
«Mi capita di incontrarlo, ogni tanto» disse Jacquel, «quando vado a ritirare un corpo.» Sorseggiò la sua birra.
«Vorrei provvedere al mio mantenimento» disse Shadow «finché resto qui. Ditemi di cosa avete bisogno e io lo faccio.»
«Ti troveremo un lavoro» convenne Jacquel.
La gattina scura aprì gli occhi e si alzò stiracchiandosi. Attraversò la cucina e andò a strusciare la testa contro uno stivale di Shadow che allungò la mano per darle una grattatina sulla fronte, dietro le orecchie e sulla nuca. Lei inarcò estatica la schiena e poi gli saltò in grembo, si issò sul suo petto e gli sfiorò la punta del naso con il suo, freddo. Infine si acciambellò sulle ginocchia di Shadow e si riaddormentò. Lui le accarezzò il pelo morbido; era un peso caldo e piacevole sulle ginocchia, aveva l’aria di sentirsi nel posto più sicuro del mondo e Shadow lo trovò consolatorio.
La birra gli aveva lasciato un piacevole ronzio nella testa.
«La tua stanza è in cima alle scale, vicino al bagno» disse Jacquel. «Troverai appesi nell’armadio gli abiti da lavoro… Prima vorrai lavarti e farti la barba, immagino.»
Shadow si lavò e sbarbò. Fece la doccia in piedi nella vasca di ghisa e si fece la barba con un rasoio a mano libera che gli aveva prestato Jacquel. Era affilato in maniera oscena, e aveva un manico di madrcperla, e Shadow sospettò che venisse usato per dare ai cadaveri l’ultima rasatura. Era la prima volta in vita sua che usava un rasoio di quel tipo, tuttavia non si tagliò. Sciacquò quel che restava della schiuma da barba e nello specchio del bagno coperto dì puntini scuri osservò se stesso nudo. Era coperto di ecchimosi: lividi nuovi sul petto e sulle braccia e, sotto, quelli ormai sbiaditi, ricordo di Mad Sweeney. Lo specchio gli restituì uno sguardo sospettoso.
E poi, come se qualcuno gli guidasse la mano, alzò il rasoio e se l’appoggiò con la lama aperta sulla gola.
Una soluzione, pensò. Una via d’uscita. E se al mondo c’era qualcuno capace di occuparsi del caso, di ripulire il disastro e sistemare tutto erano proprio i due tizi seduti a bere birra al piano di sotto, in cucina. Farla finita con le preoccupazioni. Farla finita con Laura. Farla finita con i misteri e le cospirazioni. Con i brutti sogni. Soltanto pace e quiete ed eterno riposo. Un colpo secco, da un orecchio all’altro. Non era difficile.
Rimase lì in piedi con il rasoio puntato alla gola. Dove la lama toccava la pelle uscì una goccia di sangue. Non si era nemmeno accorto di essersi tagliato. Vedi, disse, tra sé e sé, e gli sembrò di sentire una voce che gli sussurrava all’orecchio. Non fa male. È troppo affilato per fare male. Morirò senza neanche accorgermene.
In quel momento la porta del bagno si aprì di pochi centimetri, sufficienti a lasciar passare la gattina che sporgendo la testa dalla soglia lo guardò con aria incuriosita e fece le fusa.
«Ehi» le disse Shadow. «Credevo di aver chiuso a chiave.»
Ripiegò il rasoio, lo appoggiò sul lavandino e tamponò il piccolo taglio sulla gola con un pezzetto di carta igienica. Poi si avvolse un asciugamano intorno ai fianchi e andò nella stanza.
Come la cucina anche la sua camera da letto sembrava essere stata arredata negli anni Venti: c’era un lavamano con una brocca accanto alla cassettiera e allo specchio. Qualcuno gli aveva già preparato i vestiti sul letto: abito nero, camicia bianca, maglietta e mutande bianche, calzini neri. Sul vecchio tappeto persiano accanto al letto c’era anche un paio di scarpe nere.
Si vestì. Erano indumenti di buona qualità, benché non nuovi. Si domandò a chi fossero appartenuti. Stava mettendosi i calzini di un morto? Si sarebbe infilato le scarpe di un morto? Annodò la cravatta guardandosi allo specchio e adesso ebbe l’impressione che il suo riflesso gli sorridesse sardonico.
Gli sembrava inconcepibile di aver potuto anche solo pensare di tagliarsi la gola. Mentre sistemava la cravatta il suo riflesso continuava a sorridere.
«Ehi» gli disse. «Forse tu sai qualcosa che io non so?» e immediatamente si sentì sciocco.
La porta si aprì e la gatta scivolò tra stipite e battente, attraversò la stanza e saltò sul davanzale della finestra. «Ehi» le disse Shadow. «Quella porta l’avevo chiusa sul serio. Sono sicuro.» Lei lo guardò con aria interessata. Aveva gli occhi color giallo scuro, come l’ambra. Poi dal davanzale balzò sul letto, dove si acciambellò in una massa di pelo e si addormentò sopra il vecchio copriletto.
Shadow uscì lasciando la porta aperta, perché la gatta potesse andarsene e anche per arieggiare in po’, e scese al pianterreno. Le scale cigolavano e scricchiolavano, protestando sotto il suo peso, implorando di essere lasciate in pace.