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Quella sera Shadow aggiunse un posto a tavola. Davanti a ogni piatto sistemò un bicchiere e in mezzo al tavolo una bottiglia di Jameson Gold. Era il whiskey irlandese più costoso che fosse riuscito a trovare nel negozio di liquori. Finito di cenare (con un grande vassoio pieno d’avanzi lasciati dalle pie donne), Shadow versò nei bicchieri una dose generosa di liquore; nel suo, in quello di Ibis, di Jacquel e di Mad Sweeney.

«Che importa se è seduto sulla barella nel sotterraneo» disse mentre versava il whiskey «in attesa di essere sepolto in una fossa comune? Questa sera brinderemo a lui e gli faremo la veglia che desiderava.»

Shadow alzò il bicchiere in un brindisi in direzione del posto vuoto. «L’ho incontrato solo due volte, da vivo. La prima ho pensato che fosse uno stronzo di prima categoria e anche un pazzo forsennato. La seconda mi è sembrato un rovinato totale e gli ho dato i soldi per uccidersi. Mi ha insegnato un trucco con le monete che non riesco a ricordare, mi ha lasciato qualche livido in ricordo e diceva di essere un leprecauno. Riposa in pace, Mad Sweeney.» Sorseggiò il whiskey assaporandone il gusto affumicato. Gli altri due bevvero con lui dopo aver brindato al posto vuoto.

Il signor Ibis infilò una mano in tasca e ne estrasse un quaderno che sfogliò fino alla pagina che cercava, dalla quale lesse un succinto resoconto della vita di Sweeney.

Secondo Ibis, Mad Sweeney aveva esordito più di tremila anni prima come guardiano di una roccia sacra in una piccola radura irlandese. Raccontò le faccende amorose di Sweeney, le sue inimicizie, la follia che gli dava potere («sì narra anche una versione più tarda delle sue gesta, benché la sua natura sacra, l’origine antica e gran parte dei versi dell’epopea siano stati dimenticati da tempo immemorabile»), parlò del culto di Mad Sweeney che nel luogo d’origine si era a poco a poco trasformato in un cauto rispetto, poi in un atteggiamento divertito; raccontò della ragazza di Bantry che era venuta nel Nuovo Mondo portando con sé la fede in Mad Sweeney il leprecauno, perché una notte l’aveva visto vicino allo stagno, e non le aveva forse sorriso chiamandola per nome? La ragazza aveva dovuto emigrare viaggiando nella stiva di una nave zeppa di gente che aveva visto le proprie patate diventare una nera poltiglia nei campi, che aveva visto amici e amanti morire di fame, che sognava una terra di pance piene. In particolare la ragazza di Bantry sognava una città dove una giovane donna potesse guadagnare a sufficienza per far venire tutta la famiglia nel Nuovo Mondo. Molti irlandesi venuti in America si definivano cattolici, anche se del catechismo non sapevano niente, anche se di religioso conoscevano soltanto la Bean Sidhe, la banshee, lo spirito di donna il cui lamento era presagio di morte, e Saint Bride, che una volta era Bridget delle due sorelle (tutte e tre erano Brigid, una e trina) e le storie di Finn, di Oisin, di Conan il calvo, perfino dei leprecauni, i mezzi uomini (senso dell’umorismo irlandese, visto che all’epoca i leprecauni erano più alti della gente dei tumuli)…

Tutto questo e altro ancora narrò il signor Ibis quella notte in cucina. L’ombra che gettava sul muro era allungata come quella di un uccello, e man mano che il whiskey scorreva Shadow trovava sempre più facile immaginare che fosse la testa di un enorme uccello acquatico, il becco lungo e ricurvo, e fu a un certo punto a metà del secondo bicchiere che Mad Sweeney stesso cominciò ad aggiungere dettagli e particolari irrilevanti al racconto di Ibis («… e che ragazza, con il petto color crema, tutto coperto di lentiggini, con i capezzoli del rosa intenso dell’alba di un giorno in cui pioverà a catinelle prima di mezzodì ma nel pomeriggio splenderà il sole…») e poi si avventurò, ricorrendo a entrambe le mani, nella storia degli dèi irlandesi, giunti a ondate da Gallia, Spagna e chissà dove, che a ogni ondata successiva si trasformavano in troll e tutte le dannate creature, fino a quando la Santa Madre Chiesa non arrivò e senza preavviso trasformò tutti gli dèi d’Irlanda in fate, santi o in re morti…

Il signor Ibis pulì gli occhiali e spiegò — pronunciando le parole con una chiarezza e una precisione perfino maggiore del solito e rivelando con ciò di essere ubriaco (il modo di parlare e il sudore che gli imperlava la fronte nella casa fredda erano gli unici indizi del suo stato di ubriachezza) — agitando un indice ammonitore, che lui era un artista e che i suoi racconti non andavano considerati resoconti letterali ma creazioni della fantasia, più veri del vero. «Ti faccio vedere io la mia fantasia creativa» disse Mad Sweeney, «e con un pugno ti rifaccio quel muso di merda, tanto per cominciare», e il signor Jacquel ringhiò scoprendo i denti, il ringhio di un grosso cane che non vuole combattere ma che potrebbe attaccarti alla gola senza difficoltà, e Sweeney raccolse il messaggio e dopo essersi rimesso seduto si versò un altro bicchiere di whiskey.

«Ti è tornato in mente il mio trucchetto?» chiese a Shadow con un sorriso.

«No.»

«Se provi a indovinare» disse Mad Sweeney con le labbra di un rosso acceso e gli occhi azzurri offuscati «io ti aiuto.»

«Non è un palmaggio, vero?» chiese Shadow.

«Non lo è.»

«Adoperi qualche attrezzo? Qualcosa che infili nella manica o non so dove e che spara fuori le monete quando fai finta di prenderle al volo?»

«Non è un attrezzo. Qualcuno vuole ancora whiskey?»

«Ho letto in un libro che c’è un modo di eseguire il Sogno dell’Avaro con un guanto trasparente, facendo una specie di sacchetto color pelle dove si tengono le monete.»

«Oh che triste veglia per il Grande Sweeney venuto a volo d’uccello fin dall’Irlanda e che nella sua follia ha mangiato crescione: è morto e nessuno lo piange salvo un uccello, un cane e un cretino. No, non si tratta di una sacca nel guanto di gomma.»

«Be’, altre idee non me ne vengono» disse Shadow. «Secondo me le prendi dall’aria e basta.» L’aveva detto con sarcasmo, ma quando vide l’espressione di Sweeney aggiunse: «È così. Fai davvero così».

«Be’, non le prendo esattamente dall’aria. Ma ci sei vicino. Bisogna prenderle dalla riserva.»

«La riserva» ripeté Shadow che cominciava a ricordare. «Certo.»

«Devi soltanto tenerla a mente, e puoi attingerci finché ti pare. È il tesoro del sole. C’è nei momenti in cui il mondo produce un arcobaleno. C’è quando cominciano l’eclisse e la tempesta.»

E mostrò a Shadow come si faceva.

Questa volta Shadow capì.

La testa gli doleva e pulsava, e la lingua aveva la consistenza e il sapore della carta moschicida. Shadow socchiuse gli occhi per difendersi dalla luce. Si era addormentato con la testa appoggiata sul tavolo della cucina; era vestito di tutto punto, anche se chissà quando doveva essersi levato la cravatta.

Scese nell’obitorio nel seminterrato e fu sollevato, anche se non sorpreso, di vedere che Tizio era ancora seduto sul tavolo dell’imbalsamazione. Prese la bottiglia vuota di Jameson Gold dalle dita bloccate dal rigor mortis e la gettò via. Al piano di sopra qualcuno si stava muovendo.

Quando Shadow tornò in cucina, seduto al tavolo trovò Wednesday intento a divorare con un cucchiaio di plastica gli avanzi dell’insalata di patate da un contenitore. Indossava un vestito grigio scuro, una camicia bianca e una cravatta color ferro: il sole del mattino scintillava sulla spilla d’argento a forma d’albero. Vedendo Shadow sorrise.

«Ah ragazzo mio, mi fa piacere vedere che sei sveglio. Credevo che saresti andato avanti a dormire per sempre.»

«Mad Sweeney è morto.»

«L’ho saputo» disse Wednesday. «Un vero peccato. Naturalmente presto o tardi toccherà a tutti.» Fece il gesto di dare uno strattone a una corda immaginaria, più o meno a livello dell’orecchio, poi piegò la testa di lato tirando fuori un palmo di lingua e strabuzzando gli occhi. Per essere una rapida pantomima, fu piuttosto inquietante. Poi lasciò andare la corda immaginaria e sorrise con la sua solita smorfia. «Vuoi un po’ di insalata di patate?»