«Lasciala morire adesso. Ecco: Radegunde è morta. Radegunde non c’è più. Forse la porta era pesante solo perché lei stava dall’altra parte e la spingeva per non farmi passare. Forse adesso si aprirà completamente. Ho guardato in tutte le direzioni: a est, a nord e a sud, e ad ovest, ma c’è un posto dove non ho mai guardato, e ora lo farò: lontano da questa sfera, in alto. Vediamo…
Smise di parlare, di colpo. Mi stavo addormentando, ma mi svegliò il silenzio. Poi sentii la badessa gemere terribilmente, come colpita a morte; quindi disse, con un bisbiglio così acuto e fremente che mi fece rizzare i capelli: Dove sei? E dopo un momento spalancò le imposte e si affacciò e gridò con tutta la forza della sua voce: Aiutami! Cercami! Oh, vieni, vieni, vieni, o morirò!
Questo svegliò Thorvald. Si alzò, imprecando in norvegese, e si allacciò la cintura della spada e si portò la mano al pugnale: avevo notato che quel gesto piaceva molto ai norvegesi. La badessa taceva. Lui esalò un respiro profondo e andò ad accendere la candela di sego alle braci sotto la cenere del camino. E quando la candela si accese fumando, la mise sulla mensola.
Poi disse in tedesco: — Cosa diavolo c’è, donna! Cos’è successo?
La badessa si voltò. Sembrava che non ci vedesse, come se fosse abbacinata da una gioia troppo grande, come chi ha guardato il sole ed è ancora abbagliato e tutto gli pare cambiato, e il mondo sembrava tutto di Dio e tutto ciò che vi è sembra il Paradiso. Disse sottovoce, cingendosi le spalle con le braccia: — La mia gente. La gente vera.
— Che cosa stai dicendo?
Allora sembrò che la badessa lo vedesse, ma solo come Sibihd aveva visto noi: cioè, non con orrore, come Sibihd, ma come se ci vedesse attraverso qualcosa d’altro, come qualcuno che esce da una visione di beatitudine che ancora gli aleggia intorno. Disse, con la stessa voce sommessa: — Vengono a prendermi, Thorvald. Non è meraviglioso? È da un anno che so che sarebbe accaduto qualcosa, ma non sapevo che sarebbe stata l’unica cosa che desidero al mondo.
Thorvald si cacciò le mani nei capelli. — Chi verrà?
— La mia gente — disse lei, con una risata mormorante. — Non li senti? Io sì. Dobbiamo attendere tre giorni perché vengano da molto lontano. Ma allora… oh, vedrai!
Lui disse: — Hai sognato. Domani partiremo.
— Oh, no — disse semplicemente la badessa. — Non puoi, non sarebbe giusto. Loro mi hanno detto di attendere: hanno detto che se fossi andata via non mi avrebbero trovata.
Thorvald disse: — Sei ammattita. Oppure è un trucco.
— Oh, no, Thorvald — disse lei. — Come potrei ingannarti? Sono tua amica. E tu attenderai questi tre giorni, perché anche tu sei mio amico.
— Sei matta — disse Thorvald, e si avviò verso la porta dello studio, ma la badessa gli si parò davanti e si gettò in ginocchio. Sembrava che l’astuzia l’avesse abbandonata completamente; o forse era stata Radegunde a possedere l’astuzia. Questa era come una bambina. Giunse le mani e le lacrime le traboccarono dagli occhi. Lo supplicò:
— È una cosa da poco, Thorvald, tre giorni appena! E se non verranno, allora andremo dovunque vorrai; ma se verranno non dovrai pentirtene, te lo prometto: non sono come gli abitanti di qui, e quel luogo è molto diverso. È ciò che l’anima desidera, Thorvald!
Il norvegese disse: — Alzati, donna, per amor di Dio!
E lei, con un sorriso spaventato: — Se mi lasci restare, ti mostrerò il tesoro sepolto della vecchia badessa, Thorvald.
Lui indietreggiò, indignato. — Ecco la vecchia strega coraggiosa che non teme la morte! — disse. Si avviò verso la porta, ma la badessa si alzò di nuovo, svelta, come un serpente, e si buttò contro l’uscio.
E gli disse, sempre con quella strana innocenza: — Non picchiarmi. Non spingermi. Sono tua amica!
E lui: — Vuoi dire che hai intenzione di portarmi in giro con un cordone intorno al collo, come se fossi un’oca. Be’, io sono stanco!
— Ma non posso più farlo — disse la badessa, ansimando. — Non posso più farlo, ora che la porta si è aperta. Non posso. — Lui alzò il braccio per picchiarla e la badessa si rannicchiò gemendo: — Non picchiarmi! Non provocarmi! No, Thorvald!
Lui disse: — Allora togliti di mezzo, vecchia strega!
La badessa incominciò a piangere e a singhiozzare. — Una è qui, ma un’altra verrà! Una è sepolta, ma un’altra si leverà! Verrà, Thorvald! — E quindi, con voce bassa, in fretta: — Non spalancare l’ultima porta. Dietro c’è qualcosa che è malvagio, e io ho paura… — Ma si vedeva che il norvegese era furioso e deluso e non voleva ascoltare. La colpì per la seconda volta, e lei cadde di nuovo, ma con un grido disperato, coprendosi la faccia con le mani. Lui tolse il catenaccio alla porta e la scavalcò, e io sentii i suoi passi nel corridoio. Vedevo chiaramente la badessa; allora non mi chiedevo come fosse possibile, con le ombre della candela di sego che quasi nascondevano tutto sulla loro danza ebbra, ma vedevo chiaramente ogni linea della sua faccia come se fosse pieno giorno, e in quella luce vidi Radegunde che ci lasciava.
Siete mai stati alla corte di un grande re o di un conte e avete ascoltato i cantastorie? Certuni sono così esperti nell’arte che non soltanto vi narrano ciò che il personaggio della storia fece o disse, ma esprimono l’azione con la faccia e col corpo, come se fossero davvero quell’uomo o quella donna, e perciò per voi è una grande sorpresa, quando il racconto finisce, perché quasi credete di aver visto la vicenda svolgersi sotto i vostri occhi, ed è come se quell’uomo o quella donna avesse smesso improvvisamente di esistere, perché avete dimenticato che c’erano soltanto un cantastorie e una storia.
Avvenne così con la donna che era stata Radegunde. Non cambiò: aveva ancora i capelli grigi e la faccia grinzosa e il corpo di vecchia nell’abito marrone da contadina, eppure era una sconosciuta, uscita dalla badessa Radegunde come da una veste lasciata cadere sul pavimento. La sconosciuta era insensibile, sebbene le lacrime di Radegunde le scorressero ancora sulle guance, e in lei non c’erano bontà e gioia. Si alzò senza curarsi del suo abito al quale s’erano appiccicate le canne sporche; era come se l’abito fosse un accidente casuale e non la riguardasse. Disse con una voce che non avevo mai sentito, una voce insensibile, come se io non contassi nulla per lei, e neppure Thorvald Einarsson, come se noi due non meritassimo una seconda occhiata:
— Thorvald, voltati.
In fondo al corridoio qualcosa si mosse.
— Ora torna indietro. Qui.
Sentii i passi avvicinarsi. Poi il norvegese grande e grosso entrò goffamente nella stanza, a sussulti, come se ad ogni passo fosse trascinato da una corda. Il sudore gli imperlava la faccia. Disse: — Tu… come?
— Perché è la mia natura — disse lei. — Alza il braccio destro, volpone. Ora il sinistro. Ora abbassali tutti e due. Bene.
— Troll! — disse lui.
— È così — disse lei. — Ora ascoltami, tu. C’è un uomo dentro di te, ma non val la pena di cercarlo; ho provato qualche minuto fa quando ero appena uscita dall’uovo, ed è sepolto troppo profondamente, ma adesso mi sono cresciuti rostro e artigli e non m’importa nulla di lui. È quasi l’alba e i tuoi ragazzi si stanno svegliando; andrai a dir loro che dobbiamo restar qui ancora per tre giorni. Tu conosci i cambiamenti del tempo: inventa qualcosa in modo che ti credano. E non provarti a raccontare a qualcuno ciò che è successo qui stanotte: ti accorgerai che non puoi farlo.