— Nipote! — La sua voce sembrava la grande campana di Dio, e credo che la sentissero tutti, fino alla palude. — Piccolo nipote, tu credi che il Creatore del Mondo, che ha fatto le stelle e la luna e il sole e i nostri corpi, e l’alternarsi delle stagioni e la terra su cui stiamo, sì, persino la merda nella tua pancia… credi che un essere simile abbia un grande palazzo nel cielo dove tiene le sue mogli e vada a sbatterle come faresti tu o come farebbe il re dei turchi? Non disonorare l’intelligenza della madre che ti ha partorito! Noi siamo le serve di Dio, non le sue spose, e se diciamo alle nostre sciocche ragazze che sono sposate al Cristo, lo diciamo per fargli capire che non devono scappar via per sposare Otto il contadino o Ekkehard il maniscalco, ma continuare la loro opera come hanno promesso. Se dicessi loro che sono sposata a un’Idea, non mi capirebbero, come non mi capisci tu.
(A questo punto padre Cairbre, alla finestra, borbottò in tono di protesta).
Poi la badessa si tolse dal collo il crocifisso d’argento e lo mise nella mano del giovane e disse: — Dallo a mia madre, con la mia pietà. Deve strapparsi i capelli, al pensiero di avere un figlio simile.
Ma il giovane lasciò cadere a terra il crocifisso. Era rosso in faccia e ansimava.
— Raccoglilo — disse più gentilmente la badessa. — Raccoglilo, ragazzo: non ti farà alcun male e non è magico. È soltanto argento puro ben lavorato: ti renderà ricco. — Quando vide che lui non si decideva, e anzi portava la mano al coltello, schioccò tra sé la lingua con fare materno (o almeno credo, perché agitò una mano come faceva sempre quando schioccava la lingua) e s’inginocchiò, esagerando un po’ la difficoltà del movimento, credo, e disse a gran voce: — Allora mi chinerò io, mi chinerò. — E sì rialzò: gli porse il crocifisso e disse: — Prendilo. Per me andranno bene anche due fuscelli legati con uno spago.
Il giovane gridò, con voce spezzata: — Mia madre è morta e tu sei una strega! — Fulmineamente, strinse un braccio intorno al collo della badessa e le puntò il coltello alla gola. Thorvald Einarsson ruggì: — Thorfinn! — Ma la badessa disse soltanto, con voce chiara: — Lascialo fare. Ho svergognato quest’uomo ma non intendevo farlo. Ha diritto d’essere in collera.
Il giovane la lasciò e le voltò la schiena. Ricordo che mi chiesi se quegli stranieri erano capaci di piangere. Più tardi sentii dire (e giuro che la badessa doveva saperlo, chissà come, o l’aveva intuito, perché sebbene non fosse una strega sapeva sondare un uomo fino a scoprire le piaghe nascoste, e molto in fretta) che la madre del giovane aveva avuto fama di adultera, e che nessuno voleva riconoscerlo come figlio. Tra i norvegesi, una cosa è avere quella che la badessa chiamava una concubina, e in tal caso non disprezzano i figli di quelle donne, come facciamo noi, ma è molto diverso quando una donna sposata ha più di un uomo. Era il caso di Thorfinn; immagino che per questo fosse andato vichingo. Ma tutto ciò lo seppi più tardi; ciò che vidi allora, con il naso appena al di sopra del davanzale della finestra, fu che la badessa infilò il crocifisso sull’impugnatura della spada del giovane, come se ci tenesse a regalarglielo, capite, e poi si avviò verso un punto vicino al muro dell’abbazia, ma lontano dai norvegesi. Credo volesse che andassero da lei. La vidi sollevare le gonne come una contadina, sedersi a gambe incrociate e dire a voce alta:
— Venite! Chi vuole mercanteggiare con me?
Alcuni andarono, ridendo, e le sedettero intorno.
— Tutti! — disse lei, invitandoli a gesti.
— E perché dovremmo venire tutti? — disse uno che era più lontano.
— Perché altrimenti perdereste un buon affare — rispose la badessa.
— Perché dovremmo mercanteggiare quando possiamo prendere ciò che vogliamo? — chiese un altro.
— Perché avrete soltanto la metà — disse la badessa. — Il resto non lo troverete.
— Saccheggeremo l’abbazia — disse un terzo.
— Metà del tesoro non è nell’abbazia — disse lei.
— Allora dov’è?
La badessa si batté l’indice sulla fronte. I pirati si stavano avvicinando, a due o tre per volta. In seguito ho sentito dire che i norvegesi amano gli indovinelli, e quello era una specie di enigma: la badessa li divertiva.
— Se è nella tua testa — disse Thorvald, che s’era fermato dietro gli altri, in piedi e a braccia conserte, — possiamo tirarlo fuori, no? — E toccò l’impugnatura del coltello.
— Se mi spaventi, mi confonderò e non ricorderò più nulla — disse con calma la badessa. — Inoltre, vuoi giocare quel vecchio gioco? Hai visto come ha funzionato l’ultima volta. Mi meraviglio di te, fratello della madre di Ranulf.
— Allora contratterò — disse Thorvald con un sorriso.
— E gli altri? — disse Radegunde. — Tutti o nessuno: decidete voi se volete risparmiarmi guai e pericoli e diventare ricchi. — E voltò loro le spalle. Gli uomini si avviarono lungo la riva del fiume e confabularono abbassando le voci, così non li sentimmo più. Padre Cairbre, che era vecchio e miope, gridò: — Non li sento! Cosa stanno facendo? — E io dissi prontamente: — Io ho gli occhi buoni, padre Cairbre — e lui mi sollevò perché vedessi. Apparvi alla finestra proprio nel momento in cui la badessa Radegunde era rivolta verso la torre. Si batté la mano sulla bocca. Poi si avviò alla porta e chiamò (con una voce che avevo imparato a rispettare, per timore degli sculaccioni): — Piccolo Messaggero, scendi! Vieni subito da me! E porta con te padre Cairbre.
Io ero felice. Non immaginavo che lo facesse per cercare di proteggermi, se qualcosa fosse andato male. Il mio unico pensiero era che avrei visto tutto da vicino. Così, semisoffocato, passai tra la folla nella stanza della torre, calpestando piedi e gonne, e ogni due secondi dovevo ripetere: — Ma devo andare! La badessa mi vuole! — E intanto lei, là fuori, gridava come un’imperatrice: — Lasciate passare il bambino! Fate largo al bambino! Lasciate passare il prete irlandese! — fino a che io, spingendo e protestando, arrivai fino al muro (nessuno, naturalmente, aveva intenzione di aprirci la porta), e ci fu un grande trambusto e finalmente qualcuno portò una scala a pioli. Io passai subito, ma il vecchio prete ci mise più tempo, sebbene il muro fosse basso, come ho già detto, perché i costruttori non si erano decisi a trasformare l’abbazia in una vera e propria fortezza.
Fuori era molto meglio, lontano da tutta la gente, e io corsi soddisfatto dalla badessa; lei disse soltanto: — Stammi vicino, qualunque cosa succeda — e immediatamente distolse l’attenzione da me. Padre Cairbre aveva impiegato tanto tempo a uscire che gli stranieri avevano finito di consultarsi e stavano tornando indietro, tutti venti o trenta, verso l’abbazia e la badessa Radegunde, e verso di me. Vidi che padre Cairbre tremava. Avevano un aspetto truce, visti da vicino, con quei lunghi capelli spettinati e gli strani abiti sgargianti. Ricordo che avevano un odore diverso dal nostro; ma non ricordo quale, dopo tutti questi anni. Poi la badessa si rivolse a loro nella loro strana lingua, così bizzarramente leggera e cantilenante sulle loro labbra barbute, e quindi disse qualcosa in latino a padre Cairbre, e lui annunciò, con voce tremante:
— Questo è il prete, padre Cairbre, che ripeterà le nostre contrattazioni nella nostra lingua perché la mia gente possa sentirle. Non posso trattare alle sue spalle. E questo è il mio figliolo adottivo, che mi è molto caro, e che ora, credo, può soddisfare la curiosità. — (Io mi sforzavo di stare eretto come un uomo, ma di nascosto mi aggrappavo con una mano alla gonna della badessa: dunque era di questo che ridevano gli stranieri!) Il discorso continuò, ma io lo riferirò come se avessi compreso il norvegese, perché sarebbe tedioso ripetere tutto due volte. La badessa Radegunde disse: — Allora volete contrattare?