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— Oh, sì! — dissi io. E poi chiesi: — Ma porterà anche me?

— Certo — rispose la badessa, e non ne parlammo più. Poi entrò Thorvald Einarsson e disse:

— Thorfinn chiede di te. — Più tardi scoprii che stavano aspettando che morisse: nessun altro dei norvegesi era stato ferito, ma un contadino aveva sfondato il petto di Thorfinn con un’ascia, e si pensava che sarebbe morto prima dell’indomani mattina. La badessa disse:

— È una buona ragione per andare? — E soggiunse: — Voglio dire, mi odia. La collera per la mia presenza non lo farà peggiorare?

E Thorvald rispose: — La gente di qui dice che sei capace di assistere i malati e guarirli. È vero?

— No, affatto, per quello che ne so — disse la badessa Radegunde. — Ma se loro lo credono, forse questo li tranquillizza e li fa star meglio. I cristiani sono sciocchi quanto gli altri popoli, lo sai. Verrò, se vuoi — e benché vedessi che era pallida per la stanchezza, si alzò in piedi. Devo aggiungere che indossava la semplice veste marrone di una delle contadine, perché la sua era a lavare; ma per me aveva la stessa maestà di sempre. E anche per Thorvald, credo.

Thorvald chiese: — Pregherai per lui o lo maledirai?

— Io non prego, e non maledico mai nessuno. Assisto e basta — disse la badessa, e soggiunse: — Oh, lascialo venire, altrimenti urlerà da spaccarti gli orecchi. — E si riferiva a me, perché ero pronto a gridare come un pazzo se avessero cercato di allontanarmi da lei.

Avevano messo Thorfinn nella cappella, un piccolo locale di pietra dove ormai non era rimasto altro che una semplice croce di legno, troppo priva di valore perché valesse la pena di rubarla. Era steso ad occhi chiusi vicino all’altare, su uno strato di pellicce, e aveva la faccia cinerea. Ogni volta che respirava si sentiva una specie di gorgoglio, un suono flebile e sottile; e quando mi avvicinai capii il perché. Nel petto del giovane c’era un grande squarcio rosso da cui spuntavano schegge rosa acuminate, e nello squarcio si vedeva qualcosa che sobbalzava e si abbassava, sobbalzava e si abbassava. Era il suo cuore che batteva. Dalla bocca gli usciva una bava di sangue. Non so, naturalmente, che cosa dicessero perché parlavano in norvegese; ma vidi che cosa facevano e poi ne sentii parlare molto, più tardi, fra la badessa e Thorvald Einarsson. Perciò lo racconterò come se lo sapessi.

La prima cosa che fece la badessa fu fermarsi all’improvviso sulla soglia e portarsi le mani alla bocca, come in un gesto d’orrore. Poi gridò furiosamente alle due guardie:

— Volete far morire il vostro compagno di freddo e di umidità? È così che vi trattate fra di voi? Portate qui un po’ di fuoco, e qualche panno di lana da mettergli addosso! No, non altre pelli, idioti, ma lana che aderisca addosso e assorba l’umidità. Presto, andate!

Uno degli uomini ribatté stizzito: — Non prendiamo ordini da te, nonna.

— Ah no? — disse la badessa. — Allora mi toglierò questa veste di lana e la metterò addosso al ragazzo, e me ne starò qui seduta tutta la notte, nuda e flaccida e vecchia come sono! Che cosa dirà lo spirito di questo giovane quando entrerà nel Valhall? Che i suoi amici non hanno voluto cedergli una piccola parte del loro bottino per aiutarlo a lottare per la vita? È questo il vostro cameratismo? Sbrigatevi, o mi spoglierò e vi svergognerò entrambi per il resto della vostra vita!

— Bene, prendi i panni dalla sua parte del bottino — disse quello che aveva la voce bassa, e l’altro corse fuori. Poco dopo c’era un fuoco acceso nel camino; e l’uomo portò un panno di lana color ruggine («Della mia parte di bottino» disse uno dei due a voce alta, sebbene fosse uno dei colori meno costosi, non come il blu e il rosso) e la badessa lo drappeggiò leggermente addosso al giovane, accostandoglielo con cura ai fianchi ma senza muoverlo. Non sembrava che Thorfinn soffrisse, ma il colorito non migliorò. Ma poi aprì gli occhi e disse con un filo di voce, come uno spettro, un bisbiglio esile e gorgogliante come il suo respiro:

— Tu… vecchia strega. Ma ti ho battuto… alla fine.

— Sì, mio caro? — chiese la badessa. — Come?

— Il tesoro — disse lui, — per i miei parenti. E finalmente sono vissuto da uomo. Ho combattuto… e ho avuto una donna… quella con i grossi seni, Sibihd… Le piacesse o no. È stato bello.

— Già, Sibihd — disse la badessa in tono mite. — Sibihd è impazzita. Non ascolta nessuno e non parla con nessuno. Sta seduta e si dondola e geme e si sporca e non vuol mangiare, anche se inghiotte quando la si imbocca con un cucchiaio.

Il giovane cercò di aggrottare la fronte. — Stupida — disse finalmente. — Stupide suore. Le bestie fanno così.

— Davvero? — chiese la badessa, come se per lei fosse un’idea nuova. — Questo è molto strano. Perché non ho mai sentito che un papero faccia un occhio nero all’oca o le dia una botta in testa con una pietra o le pianti un coltello nella pancia, quando ha finito. Quando Dio mette nei loro cuori il desiderio, l’oca si acquatta e il papero arriva di corsa. E una cagna in calore balza dalla finestra se le chiudi la porta. Poveri stolti! Perché non vi siete accampati a tre ore da qui, più a valle, e non avete aspettato? In meno d’una settimana tutte le giovani spose del villaggio sarebbero venute la notte di nascosto a vedere com’erano gli stranieri. Sì, e anche molte nubili e persino qualcuna delle mie ragazze. Ma non potevate aspettare, vero?

— No — disse il giovane, con l’ombra d’un tono baldanzoso. — Meglio… così.

— Così — disse lei. — Oh, sì, mio caro, la vecchia nonna sa bene com’è. Il piacere per il tempo di contare fino a tre o quattro, e il resto è divertente come far rotolare un pietrone su per un pendio.

Thorfinn sorrise, un sorriso spettrale. — Sei una puttana, nonna.

La badessa incominciò ad accarezzargli la fronte. — No, nipotino — disse. — Ma non tutto il latino è quello dei padri della Chiesa, sai, per quanto siano grandi. Si possono trovare molte cose negli strani libri scritti da autori vissuti molti secoli prima della nascita di nostro Signore. Ascolta. — E si piegò verso di lui e disse, a voce bassa:

«Danzatrice siriana, con quale incanto fai ondeggiare le membra sinuose, semiubriaca nella taverna fumosa, lasciva e sguaiata, con i lunghi capelli legati all’indietro alla moda greca, e fai schioccare le nacchere tra le dita…

Il giovane era troppo debole e non fece altro che guardarla sorpreso. Allora la badessa disse:

— Mi sembra un dio chi può sederti accanto e parlarti; quando ti sono vicina il mio spirito si spezza, il mio cuore trema, la mia voce si spegne, e non posso neppure parlare. Ardo sotto la pelle e non posso vedere; c’è un rombo nei miei orecchi e io sudo come per la febbre; divengo più pallida dell’erba tagliata e mi sento completamente trasformata: e so che la Morte mi è venuta vicina.

Il giovane disse, in tono spaventato: — Nessuno prova tutto questo.

— Sì, invece — disse la badessa.

E lui, allarmato: — Stai cercando di uccidermi!

— No, mio caro. Non voglio, semplicemente, che tu muoia vergine.

Era strano, il fatto che lui dicesse così e continuasse a tenere la mano che aveva afferrato attraverso il panno di lana. Lei gli accarezzò la testa e il giovane bisbigliò: — Salvami, vecchia strega.

— Farò del mio meglio — disse la badessa. — Tu farai del tuo meglio non parlando, e io non tormentandoti più, e tutti e due cercheremo di dormire.

— Prega — disse Thorfinn.

— Bene — disse lei. — Ma ho bisogno d’una sedia. — E le guardie, forse perché vedevano che lui le teneva la mano, portarono uno dei grandi scranni di legno dell’abbazia, che erano troppo semplici e pesanti per portarli via, credo. Allora la badessa Radegunde sedette e chiuse gli occhi. Thorfinn parve addormentarsi. Mi avvicinai a lei, sul pavimento; probabilmente mi addormentai quasi subito, perché all’improvviso mi accorsi che una luce grigia entrava nella cappella, il fuoco si era spento, e qualcuno stava scuotendo Radegunde che dormiva ancora sul seggio, con la testa piegata da un lato. Era Thorvald Einarsson, e gridava eccitato nel suo strano tedesco: — Donna, come hai fatto? Come hai fatto?