— Tu, badessa? — esclamò Hedwic, sconvolta. Thorvald, che ci sorvegliava da una certa distanza, aveva l’aria sorpresa. Io ero molto soddisfatto: mi piaceva vedere che la badessa sbalordiva la gente, era uno dei suoi doni, e a sette anni non conoscevo la lussuria, sapevo soltanto che qualche volta mi faceva piacere toccare le mie cosine quando dovevo spander acqua: e questo cosa c’entrava con le statue che si animavano o con le donne che si trasformavano in piante d’alloro? A me interessava di più la pazza Sibihd, come succede ai bambini; non sapevo che cosa avrebbe potuto fare, o se dovevo averne paura, o che cosa avrei provato se fossi ammattito anch’io. Ma la badessa rideva dolcemente dello stupore di Hedwic.
— Perché io no? — chiese. — Ero giovane e sana, e non avevo una speciale grazia di Dio più di quanta ne abbiano le galline e le mucche! Ardevo tanto di desiderio per quel giovane, bellissimo eroe (perché così lo vedevo nella mia mente, come può fare una donna con un uomo che ha incontrato qualche volta per la via) che il suo pensiero mi tormentava nel sonno e nella veglia. Mi sembrava che a causa dei miei voti non avrei potuto darmi ad Apollo di mia volontà. Perciò sognavo che mi prendeva contro il mio volere e… oh, era un piacere squisito!
A questo punto Hedwic diventò tutta rossa e si coprì il viso con le mani. Vidi che Thorvald sogghignava, mentre ci sorvegliava da una certa distanza.
— E poi — disse la badessa, come se non avesse visto né l’una né l’altra, — mi prese la tremenda paura che Dio mi punisse mandando uno stupratore che avrebbe usato illecitamente di me, come avevo sognato che facesse il mio Apollo, e temevo che allora non avrei neppure voluto resistergli e avrei provato i piaceri della vile lussuria, e da allora sarei stata una puttana e una falsa monaca. Questa paura mi tormentava e mi attraeva. Incominciai a guardare furtivamente i giovani per le vie, senza che le mie sorelle se ne accorgessero; e mi domandavo: sarà lui? Oppure lui? O lui?
«E poi accadde. Mi ero attardata staccandomi dalle altre al banchetto d’un venditore di meloni, e non pensavo ad Apollo o agli eroi bellissimi, ma soltanto alla cena in convento, quando vidi le mie compagne sparire dietro l’angolo. Affrettai il passo per raggiungerle, e sbagliai a svoltare. Mi trovai all’improvviso in una viuzza stretta, e in quel momento un giovane mi afferrò per la veste e mi gettò a terra! Vi chiederete perché facesse una simile pazzia; ma come seppi più tardi, a Roma vi sono prostitute che sfoggiano il nostro abito per soddisfare gli appetiti degli uomini così depravati da… bene, ecco, non so come dirlo! Vedendomi sola aveva pensato che fossi una di loro e che sarei stata lieta di trovare un cliente e un po’ di spasso. Quindi il suo comportamento aveva una spiegazione.
«Dunque ero lì a terra con quel giovane, mandato per vendetta da Dio, pensavo, che cercava di fare esattamente ciò che per notti e notti avevo sognato che facesse la mia statua. E sapete, non era affatto come nei miei sogni! I sassi sotto la schiena, tanto per cominciare, facevano un male terribile. E invece di squagliarmi per il piacere, urlavo a perdifiato per il terrore e gli sferravo calci mentre quello cercava di sollevarmi le gonne, e pregavo Dio che quel pazzo non mi spezzasse le ossa nella sua furia!
«Le mie grida fecero accorrere molta gente, e il giovane fuggì via. Così mi rialzai senza altri danni che la schiena indolenzita e una storta al ginocchio. Ma la cosa più strana fu che, sebbene guarissi per sempre dal desiderio lussurioso per il mio Apollo, cominciai ad essere tormentata da una paura nuova… la paura di aver desiderato lui, quello stolto giovane dall’alito fetido e con un dente mancante… e sentivo strani brividi e fremiti che erano un po’ desiderio e un po’ timore e un po’ disgusto e vergogna e tante, tante altre cose: e non somigliava affatto alla bramosia ardente che avevo provato per il mio Apollo. Andai a vedere ancora una volta la statua, prima di lasciare Roma, e mi sembrò che mi guardasse con tristezza, come per dire: non dare la colpa a me, povera ragazza; io sono soltanto un pezzo di marmo. E quella fu l’ultima volta che fui tanto orgogliosa da credere che Dio mi avesse prescelta per un dono speciale come la castità, o per uno speciale peccato; e smisi di credere che venir gettata a terra e malmenata avesse qualcosa a che vedere con il mio peccato, per quanto avessi confuso le due cose nella mia mente. Oserei dire che non l’hai trovato molto piacevole ieri, vero?
Hedwic scrollò la testa. Piangeva in silenzio. Poi disse: — Grazie, badessa — e la badessa l’abbracciò. Sembravano tutte e due più serene; ma poi all’improvviso Sibihd mormorò qualcosa, a voce così bassa che nessuno poté sentire cosa diceva.
— Il… — bisbigliò, e poi lo disse, ma era ancora un sussurro: — Il sangue.
— Quale, cara? Il tuo sangue? — chiese Radegunde.
— No, madre — disse Sibihd, e incominciò a tremare. — Il sangue. Su noi tutti. Walafrid e… e Uta… e suor Hildegarde… e tutti straziati e sventrati. E nessuno di noi aveva fatto nulla, ma io lo sentivo addosso a me, e i bambini urlavano perché venivano calpestati, e quei demoni erano usciti dall’inferno anche se non avevamo fatto niente e… e… capisco, madre, tutto il resto, ma non lo dimenticherò mai, mai, oh, Gesù Cristo, è tutto intorno a me adesso, oh, madre, il sangue!
Poi suor Sibihd cadde in ginocchio sulle foglie e incominciò a urlare; non si coprì la faccia come aveva fatto suor Hedwic, ma guardava fisso davanti a sé con gli occhi sbarrati come se fosse cieca o vedesse qualcosa che noi non potevamo vedere. La badessa s’inginocchiò e l’abbracciò, la cullò e disse: — Sì, sì, cara, ma siamo qui; ora siamo qui; ormai è tutto passato. — Ma Sibihd continuò a urlare, tappandosi gli orecchi come se l’urlo fosse di un’altra e lei non volesse sentirlo.
Thorvald, mi parve, sembrava un po’ a disagio. Chiese: — Il vostro Cristo non può guarirla?
— No — rispose la badessa. — Si può guarire solo annullando il passato. E questa è l’unica cosa che Lui non fa mai. Ora Sibihd è all’Inferno e dovrà ritornarvi molte volte prima di poter dimenticare.
— Non sarebbe una buona schiava — disse il norvegese, lanciando un’occhiata a suor Sibihd, che adesso taceva e aveva ripreso a guardare fissamente davanti a sé. — Non dovrai temere che qualcuno la voglia.
— Dio è misericordioso — disse con calma la badessa Radegunde.
Thorvald Einarsson disse: — Badessa, io non sono un uomo malvagio.
— Per essere un uomo buono — disse la badessa, — frequenti pessime compagnie.
Lui rispose rabbiosamente: — Non sono stato io a scegliere i miei compagni! Ho avuto sfortuna!
— E noi ne abbiamo avuta ancora di più, credo — disse la badessa.
— La fortuna è la fortuna — commentò Thorvald stringendo i pugni. — Capita a certa gente e non ad altri.
— Come voi siete capitati qui — disse Radegunde in tono mite. — Sì, sì, capisco, Thorvald Einarsson: si può dire che la fortuna sia opera di Thor o di Odin, ma devi sapere che la nostra sventura è stata opera vostra e non di qualche dio. Voi siete la nostra sfortuna, Thorvald Einarsson. È vero che tu non sei malvagio come i tuoi amici, perché quelli uccidono per il piacere di farlo mentre tu lo fai senza sentimenti, come se mietessi il grano. Forse oggi hai visto un po’ del grano che hai falciato. Se avessi l’anima di un uomo, non saresti andato vichingo, fortuna o non fortuna, e se la tua anima fosse ancora più grande, avresti cercato di fermare i tuoi compagni, così come ora io ti parlo sinceramente nonostante la tua collera, e come lo stesso Cristo disse la verità e venne crocifisso. Se tu fossi una bestia non potresti infrangere la legge di Dio, e se fossi un uomo non vorresti farlo; ma non sei né l’uno né l’altro, e questa fa di te una specie di mostro che contamina tutto ciò che tocca senza conoscerne la ragione, ed è perciò che non ti perdonerò mai fino a quando non sarai divenuto un uomo, un uomo vero con una vera anima. In quanto ai tuoi amici…