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Hasson tentò di sorridere. Non riusciva a confessare che voleva chiudersi nella sua stanza e trasformarla in un avamposto della sua patria, guardando solo gli spettacoli inglesi trasmessi via satellite. — Ah… Dormo molto poco, di questi giorni. Di queste notti, dovrei dire. Mi serve un televisore in camera per quando non riesco ad addormentarmi.

— Gli altri hanno bisogno di dormire — notò Ginny Carpenter, sedendosi a tavola con un piatto stracolmo.

— Userò gli auricolari. Non c’è…

— Mi pare uno spreco di denaro, visto che abbiamo uno schermo tridimensionale da due metri in salotto — disse Werry, senza capire. — Comunque, ti dico cosa voglio fare: ti porto in città martedì mattina e ti presento al mio amico Bill Ratzin. Ti farà un buon prezzo.

Hasson eseguì un calcolo mentale e decise che non poteva aspettare quattro giorni. — Grazie, ma se non ti spiace preferirei…

— Qui si sciupa del buon cibo — disse Ginny. Hasson abbassò la testa e cominciò a mangiare. La bistecca di alce era più sopportabile di quanto avesse temuto, ma il sugo aveva un forte sapore di coniglio e dopo qualche boccone gli fu impossibile proseguire. Per far passare il tempo cominciò a masticare delle fettine di carota abbondantemente innaffiate di zucchero grezzo, che per lui erano come dolci. Werry fu il primo a notare il suo scarso appetito e prese a incitarlo grossolanamente. La smise solo quando Ginny spiegò che una persona abituata a un’alimentazione povera trovava spesso difficile abituarsi a cibi ricchi. Hasson riuscì a escogitare diverse repliche salaci, ma ogni volta che pensò di tradurle in parole rivide gli occhi azzurri di suo padre, colmi di panico, e risentì la sua voce familiare che gli diceva: «Ti guarderanno tutti». May Carpenter continuò a lanciargli occhiate di simpatia e fece parecchi tentativi, scopertamente diplomatici, per indurlo a parlare del viaggio, ma riuscì solo a farlo sentire più goffo e inetto che mai. Hasson concentrò tutta la sua attenzione nell’assicurarsi che nemmeno una briciola di cibo s’infilasse nelle ulcere che aveva in bocca, e pregò che il pranzo terminasse.

— Ottimo — annunciò Werry subito dopo aver bevuto il caffè. — Passo in ufficio un’oretta, tanto per vedere se ho ancora un ufficio, poi vado a prendere Theo a scuola e lo porto a casa.

Cogliendo la palla al balzo, Hasson seguì Werry nell’ingresso. — Senti, Al, sarà meglio che ti confessi… sono diventato un fanatico della televisione da quando ci sono gli apparecchi tridimensionali. Posso venire in città con te a comperarmi un televisore, oggi pomeriggio?

— Se è questo che vuoi… — Werry sembrava perplesso. — Mettiti il cappotto.

Uscendo, Hasson vide subito che il tempo era cambiato. In cielo si era radunata una formazione di nuvole basse, e l’aria aveva un odore freddo, metallico, che prometteva altra neve. Su quello sfondo plumbeo, le autostrade aeree della rete di controllo traffico, scolpite nella luce, risplendevano vivaci ed erano solide come tubi al neon. Il cielo buio ricordò ad Hasson i pomeriggi d’inverno in Inghilterra, ed ebbe l’effetto di rialzargli un po’ il morale. In un mondo grigio, la sua camera da letto sarebbe diventata un bozzolo di calore e sicurezza, con la porta chiusa a chiave e le tendine abbassate, e un televisore e una bottiglia a tenergli compagnia, liberandolo dalla necessità di pensare o vivere una vera esistenza.

Mentre raggiungevano il centro della città, si guardò attorno con qualcosa di simile alla felicità. Vedeva dappertutto scene da cartolina natalizia. La macchina stava viaggiando sulla via principale quando la radio emise un sibilo e arrivò una chiamata.

— Al, sono Henry Corzyn — disse una voce d’uomo. — Lo so che oggi non volevi chiamate perché è arrivato tuo cugino e via dicendo, ma qui c’è una CA seria e penso che faresti meglio a venire.

— Una collisione aerea? — Werry sembrava interessato, ma non particolarmente preoccupato. — Qualcuno ha preso una scorciatoia? Ha saltato i raggi laser?

— No. Dei ragazzi scendevano a razzo all’imbocco est, e uno ha fatto male i calcoli ed è andato a finire diritto su un tizio. Potrebbero essere morti tutti e due. È meglio che tu venga subito, Al.

Werry bestemmiò di cuore, si fece dare l’indirizzo e svoltò in una strada che andava ad est. Accese le luci d’emergenza e la sirena, e il traffico già scarso si trasformò, davanti a loro, in un grigio confuso.

— Mi spiace, Rob — disse. — Cercherò di sbrigarmela il più in fretta possibile.

— Non preoccuparti — disse Hasson, e tutta la sua sicurezza si frantumò. Nel corso della sua carriera aveva visto parecchie volte i risultati di incidenti per discesa a razzo, e sapeva in quale tipo di situazione si stava precipitando Werry. Con l’avvento dell’automobile, l’uomo si era trasformato nella più veloce creatura sulla faccia della Terra, gli era stata regalata una nuova dimensione di libertà. Per molti individui quella libertà si era dimostrata eccessiva, e ne era risultato un tasso di mortalità simile a quello prodotto da mali più antichi come la guerra, le carestie e le malattie. Poi l’uomo aveva imparato a padroneggiare la gravità, sfruttandone la forza a proprio vantaggio, ed era diventato la più veloce creatura dell’aria. E con questa nuova libertà (guizzare con le allodole e superare le aquile, cavalcare l’arcobaleno e inseguire il tramonto) il Quinto Cavaliere, quello che cavalcava un destriero alato, si era preso la rivincita definitiva.

I ragazzi che un tempo si sarebbero uccisi, trascinando nella rovina qualche amico, con l’aiuto di una motocicletta o di una macchina veloce, adesso avevano a disposizione tutto un nuovo repertorio di prove pericolose, studiate per dimostrare la loro immortalità, anche se spesso dimostravano il contrario. Uno dei giochi preferiti era la battaglia aerea: due volatori, arrivati in alto, si afferravano a vicenda e piombavano giù come pietre, visto che i campi antigravitazionali si annullavano reciprocamente. Il primo che si liberava e riprendeva a controllare la caduta era considerato vinto; e l’altro (specialmente se spegneva il campo e prolungava la caduta fino all’ultimo istante possibile) era considerato vincitore, anche se spesso il vincitore perdeva perché calcolava male la propria altezza e andava a finire su una sedia a rotelle, o su una lastra di marmo.

La discesa a razzo era un altro di quei giochi, eseguito nei giorni in cui i banchi di nuvole nascondevano i giocatori agli occhi della legge. Le regole dicevano che bisognava salire al di sopra delle nuvole su un’autostrada aerea, spegnere il campo antigravità e piombare su una corsia affollata di volatori, preferibilmente senza mai usare il campo per regolare la traiettoria di caduta. Lo scopo del gioco era far nascere la paura nell’animo del serio, banale volatore che tornava a casa dopo il lavoro, e in genere lo scopo veniva raggiunto: chiunque pensasse obiettivamente alla cosa capiva l’impossibilità di determinare l’angolazione della rotta con la precisione necessaria a evitare il pericolo di collisioni. Più di una volta Hasson aveva iniettato droghe antidolorifiche al proiettile umano e al bersaglio umano, e poi, impotente, era rimasto a guardare il Quinto Cavaliere che aggiungeva nuove tacche a forma di bara alla sua collezione.

Werry accese il microfono. — Henry, hai identificato qualcuno?

— Sì. Il ragazzo che s’è buttato dovrebbe essere Martin Prada, con domicilio a Stettler. — Ci fu un momento quasi-silenzio dalla radio. — Può darsi che sia rimasto chiuso al Chinook per tutta la mattinata. Se ieri sera hanno tenuto una riunione lì, forse stanno diventando un po’ irrequieti. Le nuvole si sono mangiate l’hotel circa un’ora fa, per cui sono liberi di andare e venire come pare loro.

— E l’altro?

— So solo che non è uno di qui. A giudicare dal corpetto, direi che viene dall’America.

— Siamo a posto — disse Werry, amaro. — Il ragazzo si drogava?