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— Guida la macchina di Werry, il capo della nostra polizia, e ha un accento inglese. — Gli occhi dell’uomo ammiccarono allegramente. — Semplice, no? Spreco tutte le mie possibilità di sembrare misterioso e imperscrutabile, ma con un nome come Oliver è inutile che giochi troppo a fare l’orientale, non crede?

Hasson scrutò freddamente l’omino, chiedendosi se lo stava prendendo in giro. — È sicuro che torni subito? — Certissimo. Se vuole, può aspettare qui.

— Grazie, ma…

— Forse posso venderle quello che le occorre.

La frase insolita, più un indefinibile tono nella voce dell’altro, risvegliarono il poliziotto che dormiva in Hasson, spingendolo a chiedersi cosa significasse quell’offerta. La sua mente passò in rassegna diverse possibilità (droga, donne, gioco d’azzardo, contraccettivi, merce rubata), poi decise che solo un pazzo avrebbe offerto roba del genere a un parente del capo della polizia, cinque minuti dopo averlo conosciuto. E Oliver, qualunque altra cosa potesse essere, non era un pazzo.

— Non ho bisogno di niente. — Hasson prese una bottiglietta di pastiglie verdognole, scrutò incuriosito l’etichetta e la rimise giù. — Sarà meglio che vada.

— Signor Haldane! — Il tono di Oliver era sempre gentile, i modi cortesi, ma la sua voce inquietava Hasson. — La sua vita è di competenza esclusivamente sua, ma c’è qualcosa che non va, e io posso aiutarla. Mi creda, posso aiutarla.

«Bel trucchetto» pensò Hasson, sulla difensiva. Stava scegliendo le parole per battere in ritirata quando un uomo corpulento, coi capelli grigi, passò davanti alla vetrina e salutò Oliver. Quasi immediatamente si udì squillare il campanello della porta nel negozio vicino. Hasson s’incamminò verso l’uscita, felice di non dover dire niente.

— Arrivederci, signor Haldane. — Oliver sorrise, impietosito più che irritato per la perdita di un possibile cliente. — Spero di rivederla.

Hasson si fermò all’esterno, nell’aria fredda e pungente. Gli sembrava di essere sfuggito per il rotto della cuffia a qualcosa. Poi corse nel negozio di elettrodomestici. Gli ci vollero meno di cinque minuti per acquistare un piccolo televisore tridimensionale. Spese parte dei dollari che gli avevano dato prima di lasciare l’Inghilterra. Trasportò l’apparecchio alla macchina, lo adagiò cautamente sul sedile posteriore e ripartì in direzione ovest, verso la scuola. La individuò da lontano perché due proiezioni bilaser a forma d’albero la collegavano alla rete di controllo del traffico aereo. Hasson vide centinaia di minuscole figurine, studenti e genitori, che s’innalzavano al di sopra dei tronchi color rubino e si disperdevano a differenti altitudini.

La scuola era un insieme di edifici non troppo moderni, disposti attorno a un’ampia area di decollo e a un parcheggio. Alcuni studenti e pochi professori uscivano ancora dalle porte, il che rassicurò Hasson di non essere in ritardo. Fermò la macchina e scese in cerca di Theo Werry. La schiena gli diede un dolore minimo. C’erano diversi gruppetti di ragazzi nel raggio di qualche metro, e tutti erano pieni di energia e allegria: sentivano la libertà dell’aria aperta dopo la prigionia della scuola.

Quasi tutti sembravano interessarsi solo di quello che succedeva attorno a loro, ma Hasson notò che il suo arrivo sull’auto della polizia aveva prodotto dei cambiamenti in un gruppo. I ragazzi si erano stretti fra loro per pochi secondi, poi il gruppo si era riformato secondo uno schema che permetteva a quasi tutti di osservare i suoi movimenti. Gli occhi allenati di Hasson, automaticamente, notarono i mormorii, l’agitarsi dei piedi, e soprattutto il lieve tendersi delle spalle: qualche bulletto cullava pensieri violenti.

La forza dell’abitudine lo costrinse a cercare di delineare la distribuzione del potere all’interno del gruppo. Individuò subito un tipo coi capelli rossi in tuta da volo, sui diciott’anni (più vecchio degli altri di tre o quattro anni), che aveva un atteggiamento tutto particolare nei confronti degli altri e che di tanto in tanto si grattava il naso, lo sguardo fisso in avanti. «Perché lo faccio?» si chiese Hasson, e notò le cinture non regolamentari, piene di decorazioni, del corpetto AG del ragazzo. Sulla tuta da volo si distinguevano leggere impronte rettangolari, a indicare che le pezze di materiale fluorescente erano state strappate per rendere più difficile l’identificazione del volatore. La tuta sembrava umida, come se fosse passata da poco attraverso le nubi. In quel momento, un ragazzo del gruppo, più giovane, si girò verso il rosso, e Hasson sentì una contrazione nervosa allo stomaco: il ragazzo teneva in mano un bastone a sensori, bianco e sottile. Poi s’incamminò verso Hasson, scrutato dai compagni.

Hasson racimolò un sorriso di benvenuto e lo lasciò dissolvere in un limbo incerto quando ricordò che l’altro non poteva vederlo. Theo Werry era un ragazzo alto, nero di capelli, con lineamenti fini, pelle pallida, e un’ombra di barba e baffi che indicava l’avvicinarsi dell’età adulta. I suoi occhi erano chiari e normali, sembravano perfettamente funzionanti. Solo la testa inclinata all’indietro e un’innaturale serenità d’espressione rivelavano che era cieco. Hasson provò un insieme di rabbia e compassione così intenso da sconvolgerlo, e si aggrappò subito col pensiero a quanto gli aveva detto Al Werry: il ragazzo sarebbe guarito presto. Rimase immobile mentre Theo gli si avvicinava. Il ragazzo camminava piano ma sicuro, mettendo il bastone nella posizione migliore per sapere dagli invisibili raggi laser dove si trovava Hasson, e com’era fatto.

— Ciao, Theo — disse Hasson. — Sono Rob Haldane. Tuo padre ha avuto da fare sul lavoro, per cui ha chiesto di venirti a prendere.

— Salve. — Theo aggiustò l’auricolare che traduceva i segnali del bastone in impulsi acustici. Tese la sinistra. Hasson la strinse con la sua sinistra, attento a che la stretta fosse vigorosa.

— Mi spiace averle dato disturbo — disse Theo. — Potevo tornare a casa da solo.

— Nessun disturbo. — Hasson spalancò per Theo la portiera della macchina della polizia. — Vuoi salire? — Fu sorpreso nel vedere che Theo scuoteva la testa.

— Preferirei tornare in volo, se non le spiace. È tutto il giorno che sto chiuso.

— Ma…

— Tutto a posto — aggiunse in fretta il ragazzo. — Ho il permesso di volare, se mi aggancio a qualcun altro. La mia tuta e il corpetto sono nel portabagagli.

— Tuo padre non mi ha avvisato. — Hasson cominciava a sentirsi a disagio. — Mi ha chiesto di riportarti a casa in macchina.

— Ma è tutto a posto, sul serio. Torno spesso in volo. — Nella voce di Theo si era insinuata l’impazienza. — Barry Lutze si è offerto di venire con me, ed è il miglior volatore di Tripletree.

— È quel rosso con cui stavi parlando?

— Sì. Il miglior volatore della regione.

— Davvero? — Hasson puntò gli occhi su Lutze, che immediatamente voltò la testa e fissò lo sguardo in lontananza, strofinandosi le narici tra pollice e indice.

Theo sorrise. — Posso avere la tuta e il corpetto, per favore?

Hasson continuò a studiare Lutze e prese una decisione. — Mi spiace, Theo. Non posso prendermi questa responsabilità senza il consenso di tuo padre. Lo vedi in che posizione mi trovo, no?

— Io? Io non vedo niente. — Theo era amareggiato. Individuò la macchina col bastone, salì e si sedette. Osservato minuziosamente dagli altri ragazzi, Hasson si accomodò dietro il volante e cercò di non sobbalzare quando i nervi della schiena reagirono violentemente alla flessione del corpo. Accese il motore, si allontanò dall’area di decollo e tornò verso la città. Theo si chiuse in un silenzio imbronciato.

— È un brutto giorno per volare, comunque — disse Hasson dopo un po’. — Troppo freddo.

— Il chinook riscalda l’aria, in alto.

— Oggi non c’è chinook. Solo nuvole basse e un vento catabatico che scende dalle montagne. Credimi, è meglio così.