Theo mostrò segni d’interesse.
— Lei vola molto, signor Haldane?
— Ah… No. — Hasson capì di avere commesso un errore a tirar fuori l’argomento del volo con un ragazzo innamorato del cielo. — Non volo affatto, a dire il vero.
— Oh. Mi dispiace.
— Non preoccuparti. — Il fatto che il ragazzo si fosse scusato indicava che per lui il non volare era qualcosa di cui vergognarsi, e a dispetto di quello che gli suggeriva il buonsenso, Hasson decise che non aveva voglia di lasciar cadere l’argomento. — Non c’è niente di male a viaggiare un po’ comodi, sai.
Theo scosse la testa e rispose con fede cieca. — Bisogna volare. Appena vedrò di nuovo andrò a vivere lassù. È l’unica cosa possibile.
— E chi lo dice?
— Barry Lutze, per fare solo un nome, e lui lo sa bene. Barry dice che un buon volatore si vede a occhio. Hasson riconobbe l’allarmante eco del credo degli angeli, la linea di pensiero non sistematica e semi-istintiva, troppo rozza per essere ritenuta una filosofia, che nasceva nella mente di chi volava alto sulla Terra lontana, credendosi un superuomo. Era una fede pericolosa, e a lui sembrava di non aver fatto altro che combatterla per l’intera vita. Ricordò l’umidità condensata sulla tuta di Lutze e ancora una volta, al di là della sua volontà, il poliziotto che era in lui cominciò a voler controllare alcune idee.
— Pare che Barry ti racconti un sacco di cose — disse. — Lo conosci bene?
— Piuttosto bene — rispose Theo, con semplice orgoglio. — Mi parla molto.
— Oggi pomeriggio era su fra le nuvole?
L’espressione di Theo si alterò. — Perché vuole saperlo?
— Non c’è alcun motivo particolare — disse Hasson, comprendendo di essersi tradito. — M’interessa, così. Era in volo?
— Barry passa quasi tutto il tempo in volo.
— Non è la stagione che io sceglierei per andare a scavare buchi fra le nuvole.
— Chi ha detto che volava fra le nuvole?
— Nessuno. — Hasson, ormai ansioso di abbandonare la discussione, scrutò le file di edifici sconosciuti davanti alla macchina. — Non sono certo di ricordare la strada di casa.
— C’è una specie di edificio di vetro marrone, al prossimo incrocio? — chiese Theo. — Un negozio di arredamento che ha sul tetto la proiezione di una grande poltrona?
— Sì. È qui davanti.
— Allora lì svolti a sinistra e segua la strada fino a raggiungere la circonvallazione nord. È un giro un po’ più lungo, ma è il più facile se non si conosce bene la strada.
— Grazie. — Hasson eseguì le istruzioni e guardò incuriosito il suo passeggero, chiedendosi se Theo ci vedesse almeno un po’.
— Riesco appena a distinguere il giorno dalla notte — disse Theo — ma ho una buona memoria.
— Non volevo…
Theo sorrise. — Tutti si sorprendono nello scoprire che non sono del tutto impotente. Ho in testa una mappa della città e lì controllo la mia posizione. Giro anche un po’ per le strade.
— È magnifico. — Hasson era impressionato dalla forza d’animo del ragazzo.
— La cosa non funziona in aria, è tutto.
— No, ma sarai guarito fra un paio d’anni, vero?
Il sorriso di Theo si screpolò. — Ha parlato con mio padre.
Hasson si morsicò le labbra: ecco un’altra prova che Theo era una persona estremamente sensibile, e che le discussioni sciocche non gli interessavano. — Tuo padre mi ha detto che ti opereranno, o qualcosa del genere, fra un paio d’anni. Forse ho capito male.
— No, ha capito benissimo — rispose tranquillamente Theo. — Devo solo aspettare altri due anni, e non è niente, no? Niente di niente.
— Questo non lo direi — mormorò Hasson, desiderando che la conversazione non fosse mai iniziata, desiderando di potersi trovare al sicuro nella sua stanza, solo, con la porta chiusa e le tendine tirate e il mondo ridotto alle dimensioni di uno schermo televisivo. Strinse le dita sul volante e si concentrò sui cartelli stradali della via che puntava a nord, girando attorno alla periferia. La strada passava per una trincea che la chiudeva tra alti banchi di neve: scomparso ogni segno di abitazione, ad Hasson sembrava quasi di guidare in un territorio selvaggio.
Stava guardando un triangolo di cielo color ardesia che si apriva a riceverlo, quando qualcosa colpì la macchina con tanta forza da far sobbalzare leggermente le sospensioni. L’impatto doveva essersi verificato sul tetto, ma dal tetto non cadde niente.
Theo si protese in avanti. — Cos’è stato?
— Credo che abbiamo compagnia — rispose Hasson. Sfiorò dolcemente i freni, e nello stesso istante scese giù un volatore. Si fermò un centinaio di metri più avanti. Era un omone che indossava una tuta da volo nera, un corpetto con cinture fluorescenti arancioni e, nonostante la luce scarsissima, occhiali da sole a specchio. Hasson riconobbe immediatamente Buck Morlacher e immaginò che il suo socio, Starr Pridgeon, si trovasse in quel momento sul tetto della macchina: aveva calcolato in volo la loro velocità e li aveva centrati. Un impulso d’irritazione, più che rabbia, lo spinse a reagire come ai vecchi tempi. L’automobile stava decelerando con regolarità, avvicinandosi a Morlacher, ma Hasson schiacciò i freni con un colpo secco e fece arrestare bruscamente il veicolo. Una figura in tuta blu rotolò lungo il parabrezza, andò a sbattere sul muso della macchina e scivolò fino a terra.
Hasson, già pentito del gesto impulsivo, s’immobilizzò. La figura si rimise in piedi e lui vide la faccia sottile, acida, di Starr Pridgeon che si avvicinava. Pridgeon spalancò la portiera dalla parte del volante, e i suoi occhi si riempirono di sorpresa.
— Ehi, Buck — gridò — non è Werry. È quel suo maledetto cugino inglese.
Morlacher si fermò un attimo, poi s’incamminò di nuovo verso l’auto. — Ad ogni modo parlerò con lui.
— Bene. — Pridgeon infilò la testa in macchina. La sua faccia toccava quasi quella di Hasson. — Che razza di idea è stata? — sussurrò. — Chi ha avuto l’idea di farmi volare in strada a quel modo?
Hasson, annichilito dall’apprensione, scosse la testa, e rispose con le stesse parole che Pridgeon aveva usato quando era precipitato addosso ad Al Werry. — È stato soltanto un incidente.
L’espressione di Pridgeon divenne omicida. — Vuoi che ti tiri fuori di lì?
— È stato un incidente — disse Hasson, lo sguardo fisso in avanti. — Non sono pratico della macchina. — Se pensassi che hai abbastanza…
— Via — disse Morlacher a Pridgeon, comparendogli a fianco. Pridgeon si ritirò con un’occhiata torva, fece il giro dell’automobile e fissò Theo Werry. Il ragazzo restò immobile, calmo.
Morlacher infilò la testa a scrutare Hasson. — Com’è che ti chiami? Halford o qualcosa del genere, no?
— Haldane.
Morlacher digerì per un attimo l’informazione. I due triangoli rossi spiccavano sullo sfondo roseo della sua faccia. — Dov’è Werry?
— Nella zona est della città — rispose Hasson, sottomettendosi all’interrogatorio. — C’è stata una CA.
— Una… cosa? — chiese sospettosamente Morlacher.
— Una collisione aerea, con due morti. È dovuto restare lì.
— Doveva esserci prima che qualcuno venisse ucciso. — Morlacher parlava sui toni di una rabbia repressa a stento, un fatto che Hasson notò e trovò leggermente incomprensibile: non gli era parso che Morlacher fosse un tipo particolarmente sensibile o attento ai problemi comunitari. Stava ponderando quel fatto quando udì un clic alla sua destra. Girando la testa scoprì che Pridgeon aveva spalancato l’altra portiera e fissava Theo con una specie d’interesse clinico, meditabondo. Theo, anche se doveva aver sentito il rumore e la corrente d’aria fredda, non si mosse.