Spense la luce, si strappò di dosso lo strato esterno di vestiti e s’infilò a letto con gli occhi fissi su quel microcosmo in technicolor. Tirò su le coperte fino a esserne quasi soffocato, creando un’altra barriera fra se stesso e l’universo esterno. Il freddo del letto, a contatto con la schiena, produsse spasmi dolorosi che lo costrinsero ad agitarsi e rigirarsi per un intero minuto, ma alla fine riuscì a trovare una posizione comoda e allentò la guardia. Servendosi del telecomando programmò il televisore per tutti gli spettacoli trasmessi via satellite, e si accorse immediatamente che, a causa delle differenze di fusi orari, poteva ricevere solo i programmi scolastici delle prime ore del mattino. Alla fine si sintonizzò su un olofilm trasmesso da una stazione locale e si ripromise che alla prima occasione sarebbe tornato al negozio, per acquistare un po’ di cassette di telefilm e sceneggiati inglesi. Nel frattempo si sentiva al caldo, discretamente al sicuro, libero dal dolore, assolto dalla necessità di agire o pensare…
Fu risvegliato dal suo quasi-mondo elettronico da un insistente battere alla porta. Si drizzò a sedere e scrutò la stanza, ormai immersa nel buio, riluttante ad abbandonare il guscio del letto. I colpi proseguirono. Hasson appoggiò i piedi sul pavimento, arrivò alla porta e la spalancò. Scoprì Al Werry che avanzava su di lui, ancora in uniforme.
— Qui dentro non si vede niente — commentò Werry, accendendo la luce. — Dormivi?
— Riposavo — rispose Hasson, ammiccando.
— Buona idea. Sarai in forma per il party di stasera.
Hasson sentì un colpo al petto. — Che party?
— Ehi! Ti sei arrangiato da solo. Ti sei preso il televisore. — Werry raggiunse l’apparecchio e si chinò a esaminarlo, con un’espressione di dubbio in viso. — Com’è piccolo. Quando ci si abitua a uno schermo di due metri come quello che abbiamo giù, aggeggi del genere non valgono più due soldi.
— Stavi parlando di un party?
— Come no. Non sarà una cosa troppo grossa, solo un po’ di amici che vengono a conoscerti e bere un bicchierino, ma ti prometto, Rob, che avrai un vero benvenuto in stile canadese. Ti divertirai un mondo.
— Io… — Hasson guardò la faccia serena di Werry e capì che era impossibile rifiutare. — Non dovevi disturbarti tanto.
— Nessun disturbo. Pensa a come mi avete trattato voialtri in Inghilterra.
Hasson fece un altro tentativo di ricordare il loro primo incontro, la notte di baldoria che Werry cullava ancora nella memoria, ma non ricordava niente. Semmai provava un oscuro senso di colpa. — Oggi pomeriggio ho incontrato il tuo amico Morlacher, fra l’altro.
— Sul serio? — Werry sembrava del tutto disinteressato.
— Ha detto che quel tale rimasto ucciso oggi era un VIP.
— Ma va’! Voleva solo comperare un negozio alle Grandi Cascate. Non meritava di morire, è ovvio, ma era solo un tizio normalissimo in viaggio di lavoro. Un altro dato statistico.
— E allora come mai…?
— Buck dice sempre cose del genere — rispose Werry, perdendo un po’ della sua compostezza. — Si è messo in testa che il Comitato per il Volo Civile possa convincersi a prolungare il corridoio aereo nord-sud oltre Calgary, fino a Edmonton, magari fino all’Athabasca. Va in televisione, raccoglie petizioni, porta qui pezzi grossi pagando di tasca sua… Non capisce che il poco traffico commerciale dalle nostre parti non giustifica la spesa.
Hasson annuì. Immaginava le spese per installare una catena di posti radar automatici, di schermi d’energia e di stazioni con personale umano per trecento chilometri di spazio aereo, senza contravvenire agli standard richiesti dai diversi sindacati di piloti. — E a lui cosa importa?
— C’è il Chinook. Il grande giocattolo. L’albergo in cielo. — Werry s’interruppe, assunse un’espressione oltraggiata. — Buck crede ancora di potersi riprendere un po’ dei soldi del suo vecchio. Per lui è un hotel aereo di lusso, un centro di riunioni, un bordello da un miliardo di dollari, uno stadio per giochi olimpici, il palazzo delle Nazioni Unite, il pianeta di Disney, l’ultima stazione di rifornimento prima di Marte… Vedi un po’ tu. Buck ci crede.
Hasson gli regalò un sorriso comprensivo. Riconosceva la retorica amareggiata di chi soffre da sempre di una ferita al cuore. — Era un po’ eccitato, oggi pomeriggio.
— Cosa si aspetta che faccia?
— Da quello che ho potuto capire, verrà lui a dirti cosa si aspetta. Gli ho promesso che avrei passato parola.
— Grazie. — Werry arricciò il tappeto con la punta dello stivale lucido. — A volte vorrei che… — Diede un’occhiata di traverso ad Hasson e d’improvviso sorrise, tornando a essere lo spavaldo colonnello rivoluzionario. Le sue mani corsero sulla linea esile dei baffi, quasi ad assicurarsi che esistessero ancora.
— Senti, Rob, abbiamo argomenti migliori — gli disse. — Tu sei venuto qui per scordarti il lavoro di poliziotto, e io voglio essere certo che te lo scordi. Voglio che tu ti presenti giù fra trenta minuti, pronto per un party e pieno di sete. Ricevuto?
— È probabile che un goccio mi farebbe bene — rispose Hasson. Gli erano successe troppe cose in un giorno solo, e sapeva per esperienza che ci sarebbe voluto almeno un quarto di litro di whisky per garantirgli un approdo sicuro al sonno, senza sogni di volo.
— Questo sì che è il ragazzo che conoscevo. — Werry gli diede una pacca sulle spalle e uscì in un vortice di correnti d’aria, profumate da uno strano insieme di talco, cuoio e olio per motori.
Hasson lanciò un’occhiata di rimpianto al letto e al piacevole chiarore dello schermo televisivo, poi cominciò in fretta a disfare le valigie. La prospettiva del party, per quanto terribile, gli offriva più scappatoie di una serata trascorsa con Al Werry e gli altri tre membri della famiglia. Probabilmente sarebbe riuscito a infilarsi in un angolo vicino ai liquori e a restarsene tranquillamente seduto fino al momento di andare a letto. E così sarebbe arrivato al giorno dopo, e il giorno dopo avrebbe trovato un modo per rimettersi in forze e sostenere nuovi assalti.
Raccolse i suoi accessori da toilette, aprì di pochi millimetri la porta e rimase in ascolto, per essere sicuro di non dover incontrare May o Ginny Carpenter; poi s’incamminò di buon passo verso il bagno. Sul pianerottolo arrivò davanti a una porta socchiusa, e rimase perplesso nel vedere che la stanza cadeva nel buio e poi veniva di nuovo illuminata ogni pochi secondi. Proseguì. Si chiuse in bagno e passò una quindicina di minuti a fare la doccia e rendersi presentabile. Sperimentò un fenomeno che conosceva da tempo: è sempre un estraneo quello che ti fissa da uno specchio estraneo. L’unica spiegazione che gli paresse accettabile era che la gente, avendo familiarità con l’angolazione del proprio specchio, si mettesse inconsciamente in posa prima di girarsi verso l’immagine riflessa, per ottenere qualcosa che rispondesse ai propri desideri.
Fu colto alla sprovvista dall’immagine di un uomo nero di capelli, muscoloso ma non troppo, con la faccia deformata e irrigidita per l’apprensione attorno alla bocca e agli occhi. Rimase a fissare lo specchio, ricomponendo volontariamente i propri lineamenti, cercando di eliminare le tracce di tensione e di autocommiserazione che aveva scoperto, poi uscì dal bagno e tornò sul pianerottolo. La porta a metà strada era ancora aperta, e la luce nella stanza continuava ad accendersi e spegnersi. Hasson tirò diritto, ma fu subito assalito dal timore di un bizzarro guasto elettrico che potesse dare fuoco all’intelaiatura in legno della casa. Tornò indietro, aprì un poco la porta e guardò nella stanza. Sul letto, a gambe incrociate, era seduto Theo Werry, che teneva davanti agli occhi una lampada da tavolo e schiacciava di continuo l’interruttore. Hasson indietreggiò nel massimo silenzio possibile e tornò alla sua stanza, pieno di vergogna: esistevano mali ben peggiori di ossa infrante e vertebre fratturate.