Con gesti calmi, accurati, indossò un paio di comodi calzoni sportivi e una soffice camicia color castano. Quando ebbe finito di vestirsi, gli ospiti del party cominciavano già ad arrivare. Attraverso il pavimento, a ondate irregolari, gli giungevano le loro voci. Erano forti, rilassate e allegre, com’era naturale per i membri dello scelto club di chi si sentiva a proprio agio in casa di Al Werry, un club cui Hasson non apparteneva. Spalancò tre volte la porta della sua camera, e per tre volte fece dietrofront, prima di trovare il coraggio di scendere.
La prima persona che vide entrando in soggiorno fu May Carpenter, vestita di qualche pezzetto di un diafano materiale bianco tenuto assieme da eleganti catene d’oro. Si girò verso di lui, sorridente, lasciandolo quasi senza fiato: era un’immagine multipla, l’essenza di tutte le idee del sesso cinematografico che gli venivano in mente. Lui ammiccò, cercando di assorbire l’impatto visuale, poi notò altre donne in abbigliamenti altrettanto esotici, e uomini con giacche dai colori vivaci. E capì che, contrariamente all’impressione che gli aveva dato Werry, il party richiedeva un vestito elegante. «Tutti» lo rimproverò una voce silenziosa «ti stanno guardando». Esitò sulla soglia, si chiese se esistesse una via di ritirata.
— Eccolo qui — gridò Al Werry. — Vieni che ti presento la combriccola, Rob. — Werry gli si avvicinò, bicchiere alla mano, assurdamente vestito dell’uniforme. Si era tolto solo la giacca e il berretto. Afferrò Hasson per il gomito e lo guidò verso gli altri.
Non sapendo cosa dire, Hasson gettò un’occhiata all’uniforme di Werry. — Sei di servizio, stanotte?
Werry parve sorpreso. — No, naturalmente.
— Pensavo…
— Questi sono Frank e Carol — lo interruppe Werry, poi si lanciò in una serie spaventosa di presentazioni. Alla fine, Hasson non ricordava nemmeno un nome. Stordito dal continuo succedersi di sorrisi, strette di mano e amabili saluti, giunse come un relitto al tavolo dei liquori che era sotto il controllo di Ginny Carpenter, vestita con lo stesso abito del mattino. La donna lo fissò senza fare un gesto, implacabile come un’armatura d’acciaio.
— Dài da bere a costui — disse Werry, ridacchiando. — Quella è la marca preferita di Rob, il Lockhart. Un bel bicchiere abbondante.
Ginny afferrò la bottiglia, esaminò l’etichetta con aria critica e ne versò una razione minima. — Ci vuoi dentro qualcosa?
— Soda, grazie. — Hasson accettò il bicchiere e, sotto lo sguardo benigno di Werry, trangugiò quasi tutto. Non gli riuscì di reprimere un brivido quando scoprì che il whisky era diluito con acqua tonica.
— Perfetto, eh? — disse Werry. — Ci ho messo giorni a trovare quella bottiglia.
Hasson annuì. — È solo che non l’avevo mai bevuto con l’acqua tonica.
Espressioni d’incredulità e delizia apparvero sul viso di Werry. — Non dirmi che Ginny ci ha messo la roba sbagliata! Che donna!
— Dovrebbe bere del buon whisky di segale e birra allo zenzero, come tutti gli altri — rispose Ginny senza pentimenti, e Hasson capì che gli aveva rovinato il whisky di proposito. Stupito e depresso della sua ostilità, si girò e rimase in silenzio finché Werry non gli mise in mano un altro bicchiere, questa volta colmo di whisky quasi liscio. Si trasferì in un angolo tranquillo e cominciò a darsi da fare col liquore, metodicamente, senza allegria, sperando di anestetizzarsi fino al punto di rendere insignificante la vicinanza di tanti estranei.
Il party procedeva attorno a lui. Si creavano e disfacevano diversi centri d’attività, e poco per volta aumentava il tono delle voci, col crescere del consumo d’alcol. Al Werry, che ormai doveva ritenersi libero da ogni obbligo nei confronti di Hasson, circolava di continuo fra i suoi amici, senza mai fermarsi più di qualche secondo in uno dei gruppi. Nell’uniforme color cioccolato appariva robusto, lindo e competente, e del tutto fuori posto. May Carpenter passò la maggior parte del tempo circondata come minimo da tre uomini, apparentemente attentissima a rispondere alle loro attenzioni, eppure sempre capace d’intercettare lo sguardo di Hasson quando lui guardava nella sua direzione. Gli venne in mente che Werry e May avevano un punto in comune: per quanto riusciva a capire, le loro personalità erano del tutto impenetrabili. In entrambi i casi, l’aspetto fisico era così prepotente da soffocare la realtà interiore. May, ad esempio, si comportava come se trovasse Hasson interessante, sebbene lui avesse virtualmente cessato di esistere per quanto concerneva le donne. Forse aveva un forte istinto materno; forse trattava tutti gli uomini allo stesso modo. Hasson non era in grado di capirlo. Rifletté sul problema nei momenti liberi, tra uno scoppio di conversazione e l’altro, quando un uomo o una donna giungevano a sollevarlo dalla sua solitudine. Nella stanza il livello delle voci continuava a crescere. Perseverò nel bere finché non ebbe terminato la mezza bottiglia di Scotch. Fu costretto a provare il whisky di segale, che trovò poco forte ma ragionevolmente accettabile.
Ad un certo punto della serata, con le luci abbassate e diverse persone che ballavano, scoprì che il giovanotto paffuto, con le guance rosse, che gli stava parlando non era un contadino, come lasciava credere l’aspetto, bensì un medico. Si chiamava Drew Collins. Un ricordo che Hasson aveva soffocato (Theo Werry solo nella sua stanza, con la lampada vicino agli occhi) balzò in primo piano nella sua coscienza.
— Mi piacerebbe farle una domanda — disse, incerto sugli aspetti etici della cosa. — Lo so che non è il momento giusto e roba del genere…
— Non si preoccupi di queste sciocchezze — rispose Drew, amabilmente. — Vuol dire che le scriverò la ricetta su un’etichetta di birra.
— Non è per me. Mi chiedevo se lei è il medico di Theo.
— Sì, Theo lo curo io.
— Be’… — Hasson fece roteare il bicchiere, creando una depressione conica sulla superficie del liquore. — È vero che tra un paio d’anni riavrà la vista?
— Perfettamente vero. Tra un po’ meno di due anni, per essere precisi.
— Come mai bisogna aspettare tanto per l’operazione?
— Non si tratta esattamente di un’operazione — spiegò Drew, apparentemente lieto di parlare della sua professione. — È l’apice di tre anni di cure. Theo soffre di una malattia conosciuta come cateratta complessa, il che non significa che la cateratta in sé sia complessa. È solo che il fatto che si sia ammalato così giovane implica la presenza di altri fattori. Fino a una ventina d’anni fa esisteva una sola cura possibile, l’asportazione del cristallino che lo avrebbe lasciato con una vista molto imperfetta per il resto della vita, ma oggi riusciamo a restituire la trasparenza alla capsula lenticolare. È necessario mettere gocce negli occhi tutti i giorni, per tre anni, ma alla fine del periodo la semplice iniezione di un enzima sintetico nel cristallino lo rende come nuovo. È un grosso progresso della medicina.
— Pare proprio — disse Hasson. — Solo che… — Solo cosa?
— Tre anni al buio sono tanti.
Sorprendentemente, Drew si avvicinò ad Hasson e abbassò la voce. — Sybil ha convinto anche lei? Hasson lo fissò per un attimo in silenzio, cercando di nascondere la propria confusione. — Sybil? No, non mi ha convinto.
— Pensavo che potesse essere successo- disse Drew, in tono confidenziale. — Si è messa in contatto con alcuni parenti di Al e li ha spinti a mettersi contro di lui, ma Al è l’unica persona legalmente responsabile del ragazzo, e la decisione doveva essere solo sua, personale.