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Hasson frugò nella memoria e ricordò vagamente che Werry gli aveva accennato che la sua ex moglie si chiamava Sybil. Nel suo cervello si aprì un barlume di parziale comprensione.

— Insomma — disse, cauto — questa nuova cura ha i suoi pro e i suoi contro.

Drew scosse la testa. — L’unico fattore negativo sono i tre anni d’attesa, ma è un prezzo molto basso in cambio di una vista perfetta, specialmente per un ragazzo.

— Davvero?

— Certo. Comunque, Al ha preso questa decisione e Sybil avrebbe dovuto accettarla, dargli una mano, se non altro per amore di Theo. Personalmente, tutto considerato, credo che egli abbia preso la decisione giusta. — Immagino… — Hasson capì che si stava avventurando nelle acque di una conversazione pericolosa e cercò un argomento nuovo. Per motivi che gli era impossibile spiegare, la sua mente si fermò sull’uomo che aveva incontrato in città, al negozio di cibi naturali. — La medicina alternativa le fa molta concorrenza?

— Nessuna, praticamente. — Drew lanciò un’occhia-ta di sbieco e inarcò le sopracciglia: stava arrivando Ginny Carpenter. — La nostra legislazione è molto rigorosa in materia. Perché me lo chiede?

— Una sciocchezza. Oggi ho incontrato un tipo interessante, un asiatico che ha un negozio di cibi naturali. Ha detto di chiamarsi Oliver.

— Oliver? — Drew sembrava perplesso.

— È Olly Fan — disse Ginny Carpenter, sghignazzando come una strega da cartone animato. — Meglio stargli lontano, ragazzo. Meglio stare lontano da tutti quei cinesi. Riescono a vivere dove i bianchi morirebbero perché non pensano ad altro che a fare soldi. — Per un attimo ondeggiò. Aveva il bicchiere in mano, e il suo viso era arrossato dall’alcol. — Lo vuoi sapere come riescono a fare soldi quei bastardi nei loro negoziucoli, quando non ci sono clienti?

— Quello che voglio è dell’altro liquore — rispose Drew, allontanandosi.

Ginny gli afferrò il braccio. — Te lo dico io cosa fanno. Non possono sopportare che passi un minuto senza fare soldi, e così se ne stanno lì dietro il banco dei tabacchi e aprono le scatole dei fiammiferi e tirano fuori un fiammifero da ogni scatola. Ho guardato dentro e li ho visti. Se ne stanno lì dietro il banco! Un fiammifero da ogni scatola! Nessuno si accorge se manca un fiammifero, ma dopo averlo fatto cinquanta volte, hanno una scatola in più da vendere. Un bianco non si prenderebbe tanto disturbo, ma i cinesi se ne stanno lì… Un fiammifero da ogni scatola!

Hasson rifletté un attimo sul racconto, lo classificò sotto l’etichetta “Apocrifi razzisti”, e nello stesso momento scoprì una falla nella logica interna. — Difficile da credere, no?

Ginny ruminò le sue parole e parve notare l’ambiguità. — Credi che me lo sia inventato?

— Non volevo proprio… — Hasson sorrise con aria di scusa. Temeva una discussione con quella piccola donna acida. — Credo di avere bisogno di un altro sorso.

Ginny allargò le braccia verso il tavolo. — Fai pure. Bevi tutto, amico.

Hasson immaginò parecchie rispostacce, da un sarcasmo freddo all’oscenità più crudele, ma nel suo cervello si creò di nuovo un blocco verbale complicato da correnti sotterranee d’imbarazzo, stanchezza e paura. Si trovò a mormorare ringraziamenti a Ginny e ad allontanarsi da lei come un cortigiano che si ritirasse dalla presenza di sua altezza reale.

Riempì il bicchiere, sapendo benissimo che stava bevendo troppo, e decise di adottare la tecnica di Werry: spostarsi continuamente da un punto all’altro, fino al momento di potersi decentemente rifugiare nella fortezza della propria camera.

In breve, l’eccesso di liquore, mischiato alla stanchezza, lo fece precipitare in uno stato come di trance. La stanza divenne un enorme schermo su cui le figure umane erano proiezioni piatte, insignificanti, ombre proiettate da un fuoco.

Ad un certo momento si accorse, stupefatto, di essere stato trascinato in un gioco ebbro di cui nessuno gli spiegò mai le regole, ma che implicava un continuo inciampare nel buio, sussurri, risa, e lo sbattere di porte invisibili. Gli venne in mente che era giunta la sua occasione di fuga, che con un briciolo di fortuna poteva infilarsi a letto prima ancora che notassero la sua assenza. Cercò di orientarsi nelle tenebre, s’incamminò verso la porta che dava sull’ingresso, ma il procedere gli era impedito da altre persone che sembravano possedere la magica abilità di sapere esattamente cosa stavano facendo e dove stavano andando anche a luci spente. Davanti a lui si aprì una porta, rivelando una stanza scarsamente illuminata, e diverse mani lo spinsero in avanti. Sentì la porta sbattere alle sue spalle, e nello stesso momento si accorse di trovarsi solo in cucina con May Carpenter. Il cuore cominciò a battergli follemente.

— Questa sì che è una sorpresa — disse lei a voce bassa, avvicinandosi. — Che simbolo ti è toccato?

— Simbolo? — Hasson la guardò sconvolto. Nella luce bassa, giallastra, il vestito così ridotto sembrava quasi non esistere più, e lei era una visione erotica da delirio febbrile.

— Sì. Io ho la bilancia. — Gli mostrò un cartoncino col disegno di una bilancia. — E tu cos’hai?

Hasson aprì le dita della destra e abbassò lo sguardo. In mano aveva un cartoncino con lo stesso disegno della bilancia.

— È uguale — disse May. — Siamo fortunati tutti e due. — Senza tracce d’esitazione, gli passò le mani dietro il collo, avvicinando il viso di Hasson al suo. Nell’istante prima del bacio, Hasson vide la bocca spalancata ingrandirsi per la vicinanza, diventare grande quanto la bocca di una dea del cinema in un primo piano, semplificata e idealizzata come la bocca di un simbolo del sesso su un manifesto cinematografico, tutta curve perfette, calcolate matematicamente, e tutta flutti d’un rosso scarlatto e pianure bianche immacolate, a riempirgli gli occhi. Durante il bacio provò un senso di irrealtà, ma al tempo stesso le sue mani e il suo corpo ricevevano altri messaggi, ricordandogli che lo scopo principale della vita è la vita, e che per lui non era ancora finito tutto. La rivelazione lo sconvolse per la sua forza e semplicità, lo spinse ad allontanarsi da May per poterla guardare di nuovo.

— È bellissimo — disse, cercando disperatamente tempo per pensare — ma sono molto stanco. Devo andare a letto.

— Forse è meglio così — rispose May con un candore totale, che Hasson trovò infinitamente lusinghiero e conturbante.

— Scusami. — Girò su se stesso, riuscì a trovare la porta che dava sull’ingresso, e l’attraversò. L’ingresso era deserto, buio, ma qualcuno aveva usato il vecchio attaccapanni per appendere una tuta da volo con l’elmetto ancora al suo posto, e le luci delle spalle e delle caviglie accese. Hasson oltrepassò quella specie di golem, salì alla sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si avvicinò alla finestra, scostò le tendine e osservò quel paesaggio notturno che non gli era familiare. Dall’oscurità del cielo scendeva la neve. Appena fuori della finestra c’era un grande albero spoglio, e attraverso i rami, a gelidi cerchi concentrici, filtrava la luce di un lampione stradale. Sembrava che lungo le tangenti dei cerchi fossero state seminate a piene mani miriadi di scintillii, luccichii e riflessi. Si aveva l’impressione di guardare in un lungo tunnel illuminato, pieno di ragnatele.

Hasson scrutò il paesaggio forse per un minuto, cercando di accettare l’idea di averlo visto per la prima volta solo dodici ore prima, di avere vissuto meno di un giorno del periodo destinato al riposo e al recupero delle forze. Mentre si avvicinava al letto, si spogliava e infilava il pigiama, la sua mente traboccava di ricordi appena nati: facce, voci, nomi e idee. Come succedeva sempre di notte, si muoveva agilmente, senza dolore, perché l’attività prolungata gli aveva sciolto muscoli e giunture; ma era arrivata l’ora del suo supplizio notturno.