A trenta chilometri al di sopra del mare controllò gli strumenti e vide che il movimento ascensionale era terminato. Il generatore di campo antigravità, che ormai non aveva più cibo da masticare, produceva energia a velocità vorticosa semplicemente per impedirgli di cadere. L’unico modo per poter salire più in alto sarebbe stato buttare giù le batterie esaurite, ma aveva già rifiutato l’idea, e in ogni caso il risultato non sarebbe stato un gran che. Aveva compiuto quello che si proponeva di compiere.
Immobile in quella solitudine blu e gelida, fermo sulla soglia dello spazio, Hasson si guardò attorno e non sentì nulla. Non c’erano paura, ebbrezza, meraviglia, sensazione di successo, comunione col cosmo: staccato dal contesto dell’umanità, aveva perso la propria umanità.
Scrutò a fondo i cieli, capì di essere estraneo a quell’elemento, poi mosse un comando sulla cintura e iniziò la lunga, solitaria discesa verso la Terra.
5
Si svegliò in una stanza invasa dalla luce del sole, e senza dover guardare l’orologio seppe che aveva dormito fino a tardi. La testa gli pulsava con tanta forza che poteva sentire i battiti intermittenti alla tempia premuta contro il cuscino, e la lingua gli sembrava fatta di pelle di camoscio. Aveva anche la vescica gonfia, come conseguenza del surplus alcolico sui processi diuretici del corpo.
«Un mal di testa no» protestò con il mattino. «L’ultima cosa di cui ho bisogno è un mal di testa». Rimase un po’ immobile, riabituandosi alla stanza, chiedendosi cos’era stato, il giorno prima, a mettere in moto l’eccitazione nervosa che percepiva ai limiti della coscienza. C’entrava il piacere, quello lo sapeva, il piacere di… Chiuse un attimo gli occhi quando l’immagine di May Carpenter si mise a fuoco nella sua mente, subito seguita da tutte le recriminazioni e obiezioni scatenate dalla sua età, condizione e temperamento. May era troppo giovane, lui lavorava di fantasia come un adolescente, lei era il suo tipo, era altamente improbabile che May nutrisse il minimo interesse per lui… Però, però, lo aveva guardato in un certo modo, e gli aveva detto: — Siamo fortunati tutti e due — e gli aveva detto anche: — Forse è meglio così — e il fatto di non aver mai comunicato con lei, di non conoscerla come persona, non era molto importante, perché aveva davanti tanto tempo in cui…
Un improvviso ritorno di pressione all’addome riportò Hasson alla ragione, facendogli capire che lo attendeva il compito di rimettersi in piedi dopo tutte le ore trascorse a letto. Il primo stadio dell’operazione era quello di trasferirsi, ancora in posizione orizzontale, dal letto al pavimento: aveva di fronte un lavoro d’ingegneria meccanica degno d’un gigante, e il primo requisito era una base solida, immobile. Cominciò col trasportare, a ma, no, le gambe su un lato del materasso, poi rotolò su se stesso, afferrò le coperte e scese sul pavimento in una sorta di caduta libera controllata. L’inevitabile flessione della schiena e il brusco cambiamento di temperatura diedero il via a un periodo di tormenti che sopportò in silenzio quasi perfetto, scrutando il soffitto a occhi socchiusi. Quando gli spasmi si fecero meno forti rotolò di nuovo su se stesso fino a trovarsi in posizione prona, per poi dare il via al lentissimo processo, per tentativi ed errori, di mettersi a sedere; il tutto eseguito con la cura di un muratore che dovesse puntellare una massa ribelle di detriti, sforzando sempre più lo scheletro fino alla posizione verticale.
Due minuti dopo aver preso la decisione di alzarsi, era in piedi col fiato corto, distrutto dalla prova appena superata, ma ormai capace di muoversi. Girò nella stanza, indossò una vestaglia e raccolse gli articoli di toilette, poi rimase in ascolto alla porta della camera: voleva essere sicuro che aprendola non sarebbe stato costretto a parlare con degli estranei. Il pianerottolo era deserto e tutto il primo piano sembrava abbandonato, anche se dal pianterreno giungevano i rumori di un’attività smorzata. In bagno si lavò i denti e fece una scoperta deprimente: due ulcere alla bocca che credeva in via d’estinzione erano più rigogliose che mai. Tornato nella sua stanza, si baloccò con l’idea di infilarsi ancora sotto le coperte e accendere il televisore, ma il suo corpo era talmente disidratato da fargli prepotentemente desiderare caffè o tè, senza via di scampo. Si vestì e scese in cucina, chiedendosi come avrebbe reagito se avesse trovato May da sola. Bussò piano alla porta, entrò e scorse Theo Werry seduto tutto solo al tavolo circolare. Stava mangiando un piatto di cereali. Il ragazzo indossava calzoni sportivi e un maglione rosso, e sul suo bel viso c’era un’espressione pensierosa.
— ’Giorno, Theo — disse Hasson. — Oggi non vai a scuola?
Theo scosse la testa. — È sabato.
— Me n’ero scordato. I giorni non hanno più molto significato per me, adesso che… — Hasson si controllò e gettò un’occhiata nella stanza. — Dove sono tutti?
— Papà è fuori a spalare neve. Le altre due sono andate in città. — La scelta di vocaboli di Theo, e una certa freddezza di tono, gli fecero capire che non andava pazzo per May e sua madre.
— In questo caso mi farò un po’ di caffè — disse Hasson. — Immagino che non dispiacerà a nessuno.
— Glielo preparo io, se vuole. — Theo fece per alzarsi dalla sedia, ma Hasson lo convinse a proseguire la colazione. Mentre eseguiva il rituale quotidiano di prepararsi il caffè, raccontò al ragazzo i suoi gusti e le sue abitudini, arrivando a scoprire che la conversazione con Theo non era faticosa come lo scambio di battute con gli adulti. Parlarono un po’ di musica, e la faccia di Theo si animò quando scoprì che anche Hasson amava Chopin e Liszt, oltre ad alcuni compositori moderni che utilizzavano i toni più acuti del pianoforte.
— Immagino che sentirai spesso la radio — disse Hasson, accomodandosi col suo caffè. Capì subito di avere commesso un errore.
— È quello che immaginano tutti. — La voce di Theo si era fatta glaciale. — Essere ciechi è divertente, se si ha una radio.
— Nessuno lo pensa.
— Però dovrebbe essere un grande sollievo, no? Ovunque io vada la gente accende la radio per me, e io non l’ascolto mai. Non mi piace essere cieco, privo della vista come dicono a scuola, e non permetterò a nessuno di far credere che mi piace.
— Una logica bizzarra — disse Hasson, dolcemente, ben conscio dei propri cedimenti alla malattia fisica.
— Forse. D’altra parte un onisco non è una creatura molto logica.
— Un onisco? Non ti seguo, Theo.
Il ragazzo uscì in un sorriso amaro che rattristò Hasson. — Kafka ha scritto un racconto in cui parla di un tizio che una mattina si sveglia e scopre di essersi trasformato in uno scarafaggio gigantesco. Fa orrore a tutti, l’idea di diventare uno scarafaggio. Ma se Kafka avesse davvero voluto spaventare la gente, lo avrebbe trasformato in un onisco.
— E perché?
— Sono ciechi e si agitano tanto. Ho sempre odiato quelle creature perché sono cieche e si agitano tanto. Poi mi sono svegliato una mattina e ho scoperto di essere diventato un onisco gigante.
Hasson fissò il caffè nero nella tazzina, che emanava vapore. — Theo, accetta un consiglio da uno che è campione mondiale del prendersi a bastonate in testa da solo: non farlo.
— La mia testa è l’unica che riesco a colpire.
— Anche tuo padre ne ha sofferto molto, lo sai. Non si diverte nemmeno lui.
Theo piegò la testa di lato e meditò un attimo sull’osservazione di Hasson. — Signor Haldane — disse poi, cauto — lei non conosce affatto mio padre. Io non credo che lei sia suo cugino, e non credo che sia un assicuratore.
— Buffo — disse Hasson — è quello che mi diceva il capo ogni mese, quando controllava il mio lavoro.
— Non sto scherzando.