— Voglio parlarti — disse Morlacher a Werry, dandogli forti colpi sul petto con l’indice guantato. — Li. — Indicò con la testa il soggiorno e si avviò, senza girarsi a guardare se Werry lo seguiva. Werry, dopo un’occhiata sgomenta al figlio, gli andò dietro, abbandonando in cucina Pridgeon con Hasson e Theo.
— Lo sai perché sono qui. — La voce di Morlacher era gonfia di rabbia, riempiva tutte e due le stanze.
Werry, per contrasto, si udiva a stento. — Se è per quella CA di ieri, Buck, non vorrei che tu pensassi…
— Uno dei motivi per cui sono qui è che tu non sei mai in quel tuo maledetto ufficio dove dovresti essere, e l’altro è il delitto di ieri all’imbocco est. Non è stata una CA, come dici tu, è stato un maledetto omicidio, e voglio sapere cosa hai concluso.
— Non possiamo fare molto di più di quello che stiamo facendo — rispose Werry, cercando di placarlo.
— Non possiamo fare molto di più — lo scimmiottò Morlacher. — Arriva in città un VIP per un viaggio d’affari, un idiota testa di merda lo uccide, e non possiamo fare molto di più!
Hasson, guidato dall’espressione di Theo, si alzò con l’intenzione di chiudere la porta del soggiorno. Si girò senza aver preso le precauzioni necessarie e s’immobilizzò: era come se gli avessero infilato un pugnale di cristallo fra le vertebre. Si piegò sul tavolo per un secondo, poi tese cautamente la mano verso la maniglia della porta.
— Andiamo, Buck, non era un VIP — disse Werry nell’altra stanza.
— Quando dico che quel figlio di puttana era un VIP — ruggì Morlacher — vuol dire che quel figlio di puttana era un VIP. Era venuto qui per…
Hasson chiuse la porta, riducendo le due voci a un ronzio in sottofondo, e fece del suo meglio per mettersi in piedi. Pridgeon, che passeggiava in cucina raccogliendo oggetti e rimettendoli giù, lo fissò con una specie di bonario disprezzo.
— Ragazzo, sei davvero conciato male, tu, il cugino d’Inghilterra di Al — disse, sorridendo sotto i baffi. I suoi denti avevano il colore quasi verde che deriva dal continuo accumulo di residui di cibo; e sotto le gengive, fra gli incisivi, c’erano punti marci, color carbone. — Un incidente di macchina, no?
— Esatto. — Hasson lottò per non regalargli un sorriso propiziatorio.
Pridgeon scosse la testa ed emise un sibilo. — Non dovevi andare in giro in macchina, cugino d’Inghilterra di Al. Dovevi sguazzare in cielo come un uomo vero. Guarda quel ragazzino di Theo! Theo gliela farà vedere a tutti, appena ci riesce. Non è vero, Theo?
Theo Werry serrò le labbra, rifiutandosi di rispondere.
— Theo stava tornando in camera sua — disse Hasson. — Credo che abbia terminato la colazione.
— Col cavolo! Non ha nemmeno assaggiato il caffè. Bevi il tuo caffè, Theo. — Pridgeon schiacciò l’occhio ad Hasson, si portò un dito alle labbra per ordinargli il silenzio e versò nella tazza del ragazzo un’enorme dose di zucchero. Mescolò la poltiglia e guidò la tazza nella mano del ragazzo. Theo, col viso attento e pieno di sospetto, afferrò la tazza ma non la portò alla bocca.
— Credo che lei abbia messo troppo zucchero — disse allegramente Hasson, sconvolto dalla sua stessa codardia. — Non vogliamo che Theo ingrassi.
L’aria di giocosa complicità scomparve immediatamente dalla faccia di Pridgeon. Fece il solito trucchetto intimidatorio, lo fissò d’improvviso con sguardo severo, da stregone che lancia una maledizione, poi gli si avvicinò a testa bassa, muovendosi silenzioso sulle piante dei piedi. «Non può succedere a me» pensò Hasson, e si scoprì ad annuire, sorridere, scrollare le spalle, uscire dalla cucina, incapace di sopportare l’idea che l’altro invadesse il suo spazio personale.
Ancora sotto lo sguardo minaccioso di Pridgeon, arrivò all’inizio della scala e appoggiò la mano sulla ringhiera. — Chiedo scusa — disse, morbosamente affascinato alla prospettiva della frase che le sue labbra stavano per pronunciare. — Un bisognino.
Salì le scale con l’intenzione di tornare in camera e chiudersi dentro, ma aveva proprio davanti la porta del bagno, e spinto dall’idea di far vedere che aveva sul serio bisogno di scaricarsi entrò in bagno e schiacciò il pulsante concavo dello sciacquone. Il silenzio che venne dopo gli rimbombò dentro.
— Un bisognino — sussurrò. — Dio! Un bisognino! Si portò il dorso della mano alle labbra per impedire che tremassero, poi sedette su una sedia di giunco verniciata in bianco. Ricordò, con una sensazione di perdita estrema, il tesoro di capsule verde-oro di Serenix che così stupidamente aveva gettato via. «Andrò da un medico e me le farò prescrivere» pensò. «Prenderò quelle pillole meravigliose e qualche cassetta per il televisore e andrà tutto benissimo». Abbassò la testa fra le mani: si sentiva come quando era sospeso sulla soglia color porpora della stratosfera, freddo, lontano, abbandonato. Entrò in un periodo senza tempo.
Quello stato di stupore catatonico cessò quando al piano di sotto si aprì una porta, e contemporaneamente aumentò l’irrequieto, sbuffante suono della rabbia di Morlacher. Hasson aspettò qualche secondo e spalancò la porta di quel tanto che gli consentiva una visuale verticale sull’ingresso. C’erano Morlacher e Pridgeon che si allacciavano le tute, preparandosi al volo. I loro corpi occupavano quasi tutto il locale. La porta che dava sul soggiorno era chiusa, e non c’era traccia di Al Werry. Pridgeon spalancò la porta dell’ingresso, facendo entrare la luce bianca riflessa dalla neve, e uscì. Morlacher stava per seguirlo quando ci fu un altro movimento: il trapezio di luce sul pavimento dell’ingresso si oscurò, e May Carpenter entrò in casa. Reggeva una borsa da spesa e indossava un vestito tradizionale di tweed, giacca e gonna orlate di pelo, che le conferiva un aspetto stranamente pudico. Morlacher la scrutò compiaciuto.
— May Carpenter — disse, con un sorriso libertino del tutto diverso dalle sue espressioni che Hasson conosceva già — ti fai più bella ogni volta che ti vedo. Com’è che ci riesci?
— È la vita pulita, immagino — rispose May, sorridente, per niente turbata dal fatto che lui le stesse tanto vicino nel piccolo ingresso.
— Questa sì che è buona — sghignazzò Morlacher. — Sempre a sistemare fiori e sferruzzare coperte al club dei genitori, eh?
— Non dimenticare le gare culinarie. Dovresti vedere cosa so fare con una siringa per dolci.
Morlacher rise forte, mise le mani sulla vita di May e abbassò la voce. — Sul serio, May, perché non sei venuta a trovarmi da quando sei tornata in città?
Lei scrollò le spalle. — Ho avuto da fare. E poi, non è la ragazza che deve farsi avanti con l’uomo, no? Cosa direbbe la gente?
Morlacher gettò un’occhiata alla stanza in cui aveva parlato con Al Werry, poi attirò a sé May e la baciò. Lei si abbandonò per un attimo all’abbraccio, e Hasson vide il leggero sfregamento di fianchi che la sera prima aveva messo in funzione tutti gli interruttori organici del suo corpo. Rimase immobile al suo punto d’osservazione, timoroso di essere colto a spiare ma del tutto incapace di spostarsi.
— Adesso devo andare — disse Morlacher quando si separarono. — Ho affari urgenti in città.
May lo fissò da sotto le sopracciglia tremule. — Forse è meglio così.
— Ti chiamo — sussurrò Morlacher. — Combiniamo qualcosa. — Si girò e scomparve nel bianco accecante dell’universo esterno. May lo guardò scomparire, chiuse la porta, e senza fermarsi a togliersi la giacca salì le scale a due gradini per volta, in direzione del bagno. Hasson stava quasi per chiudere la porta con un colpo deciso, poi capì che lei avrebbe notato la cosa. A gola secca, pieno di timore, si allontanò dalla porta e si piegò sul lavandino, fingendo di lavarsi le mani. May oltrepassò il bagno ed entrò in una camera da letto più avanti.