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Riportando i pensieri al presente, localizzò il negozio dove aveva acquistato il televisore ed entrò. Il proprietario, Ben, lo salutò di malumore, ma s’illuminò quando seppe che Hasson non era tornato per sporgere lamentele. Aveva un buon assortimento di cassette registrate da sei ore, e fornì ad Hasson una notevole quantità di registrazioni integrali di commedie e spettacoli musicali inglesi. Alcune risalivano appena all’anno prima.

Hasson, come un alcolizzato davanti a un bicchiere colmo, sentì un dolce calore interiore quando uscì dal negozio con una borsa di plastica rigonfia. Adesso era autodifeso, autosufficiente, equipaggiato per vivere la propria esistenza. Gli giunse alle narici l’aroma evocativo del luppolo essiccato e del malto, e un impulso incontrollabile lo spinse a gettare un’occhiata curiosa nella vetrina del negozio accanto. Il proprietario, che portava il bizzarro nome di Oliver Fan, era un tipo interessante e simpatico, e faceva discorsi inconsueti, per un commerciante. «In lei c’è qualcosa che non va»: indubbiamente vero, rifletté Hasson. Come diagnosi su due piedi era perfetta al cento per cento, ma forse si trattava di una delle solite frasi buone per tutti gli usi, come quelle che avevano sempre in bocca i falsi indovini, studiate per far apparire particolare quello che era generico. Forse era altrettanto adatta a tutte le altre persone che entravano nel negozio di Oliver. «Mi creda, posso aiutarla». Un ciarlatano lo avrebbe detto? Non sarebbe stato portato a servirsi di un giro di frasi più ambiguo per avere la possibilità, in caso di complicazioni legali, di cambiare le carte in tavola? Hasson esitò per un lungo momento e poi, pieno d’una curiosa timidezza, entrò nel negozio.

— Buongiorno, signor Haldane — disse Oliver da dietro il banco di vetro. — È bello rivederla.

— Grazie. — Hasson, incerto, vagò con gli occhi lungo gli scaffali traboccanti di merce, respirò la miscela di aromi inebrianti e si trovò senza parole, quasi fosse entrato a chiedere un filtro d’amore. — Io… io mi chiedevo se…

— Sì, intendevo quello che ho detto. Posso aiutarla. — Oliver regalò ad Hasson un sorriso di comprensione, di partecipazione, poi si alzò dello sgabello e si spostò lungo il banco. Era piccolo e di mezza età; possedeva esattamente le stesse dimensioni, corporatura e colorito di milioni di altri asiatici, eppure emanava un’individualità che ad Hasson sembrava robusta quanto la muraglia cinese. I suoi occhi, in contrasto, erano dolci, chiari e spiritosi come quelli di Laurel e Hardy o di Mark Twain.

— È un’affermazione alquanto decisa — disse Hasson, tastando il terreno.

— Davvero? Allora mettiamola alla prova. — Oliver tolse un paio d’occhiali color viola dal taschino della giacca e li inforcò. — So già che è rimasto gravemente ferito in un incidente automobilistico, e lei con ogni probabilità sa che lo so, per cui diamolo per scontato. Non le dirò che uso poteri speciali o che sono capace di vedere la sua aura, come sostengono certi buffoni che praticano la medicina alternativa. Però mi basta osservare come cammina e come sta in piedi per capire che la schiena le procura forti dolori. Inoltre direi che nell’incidente si è fracassato il ginocchio sinistro, ma quello sta già guarendo, ed è la schiena che le dà dei guai. Ho ragione?

Hasson annuì, rifiutando di lasciarsi impressionare.

— Fin qui tutto bene, ma c’è di più, non è vero? Le ferite fisiche sono brutte, il ricovero in ospedale è stato brutto, la convalescenza è lunga e dolorosa e noiosa, ma un tempo lei sarebbe riuscito a sopportare tutto. Adesso no. Le sembra di non essere più l’uomo che era. Ho ragione?

— È ovvio che abbia ragione — ribatté Hasson. — Chi mai è l’uomo che era? Lei lo è?

— Troppo generico, eh? Troppo vago? D’accordo, lei conosce i suoi sintomi meglio di chiunque altro, ma io gliene passerò in rassegna qualcuno. Ci sono le depressioni, le paure irrazionali, l’incapacità di concentrarsi su cose semplici come la lettura, la memoria scarsa, il pessimismo per il futuro, l’agitarsi come una lucertola durante il giorno seguito dall’incapacità di dormire bene la notte, a meno di non avere ingoiato pillole o alcol. Ho ragione?

— Ecco…

— Le è difficile incontrare estranei? Le è difficile, adesso, parlare con me? — Oliver si tolse gli occhiali come per rendere più facile la confessione, per smantellare le barriere.

Hasson esitò, incerto fra una cauta riservatezza e il bisogno di liberarsi dei propri pesi con un estraneo che sembrava capace di essergli più amico di qualsiasi amico. — Ammesso che tutte queste cose siano vere, cosa potrebbe farci?

Oliver parve rilassarsi un po’. — La prima cosa da comprendere è che lei e il suo corpo siete un’unità. Lei è uno. Non esiste un male fisico che non abbia riflessi sulla mente, e non esiste un male mentale che non abbia riflessi sul corpo. Se l’uno o l’altra non stanno bene, stanno male tutti e due.

Hasson provò una punta di delusione. Aveva udito discorsi simili dal dottor Colebrook e da una serie di terapeuti, e nessuno di loro sembrava capire che lui aveva perso la capacità di maneggiare concetti astratti, che le parole che non avevano una corrispondenza netta, univoca, con realtà concrete, per lui erano del tutto prive di significato.

— E questo a cosa ci porta? — chiese. — Ha detto di potermi aiutare. Cosa può fare perché la mia mente smetta di sentire dolori alla schiena?

Oliver sospirò e gli lanciò un’occhiata di scusa. — Mi spiace, signor Haldane, forse questa volta ho sbagliato. Penso di averla delusa dicendo le cose sbagliate.

— Per cui non può fare nulla.

— Posso darle queste. — Oliver prese due scatole di cartone (una piccola, con simboli cinesi in oro su sfondo rosso, l’altra grande e piatta) dagli scaffali che aveva alle spalle e le appoggiò sul banco di vetro.

«E così mirava a questo» pensò Hasson, completamente disilluso. «Il Famoso Rimedio Alle Erbe Del Dottor Dobson Che Ringiovanisce Il Fegato». — Cosa sono?

— Radice di ginseng e normale lievito di birra in polvere.

— Vedo. — Hasson s’interruppe, chiedendosi se doveva acquistare i prodotti per compensare Oliver della perdita di tempo, poi scosse la testa e si avviò alla porta. — Senta, forse tornerò un’altra volta. C’è qualcuno che mi aspetta. — Aprì la porta e uscì in fretta dal negozio.

— Signor Haldane! — La voce di Oliver aveva toni urgenti, ma non indicava la minima irritazione per la perdita di un affare.

Hasson guardò Tomino. — Sì?

— Oggi come vanno le ulcere alla bocca?

— Mi fanno male — rispose Hasson, accorgendosi stupefatto che Oliver aveva deliberatamente e scientificamente compiuto un’azione che lo toccava da vicino; aveva scelto parole collegate a una realtà oggettiva per l’unica ragione che lui aveva bisogno di udirle. — Come fa a saperlo?

— Dopo tutto dovrei scegliere la via del mistero e dell’imperscrutabilità. Oliver gli rivolse un sorriso obliquo. Pare che dia risultati migliori.

Hasson chiuse la porta e ripercorse il cammino fino al banco. — Come fa a sapere che ho ulcere alla bocca?

— Un vecchio segreto orientale del mestiere, signor Haldane. La domanda importante è: le piacerebbe liberarsene?

— Cosa devo fare? — chiese Hasson.

Oliver gli porse le due scatole che erano rimaste sul banco. — Dimentichi tutto quello che le ho detto sull’unità del corpo e della mente. Questa roba, il lievito in particolare, curerà le sue ulcere in un paio di giorni, e se continuerà a prenderla come si deve non avrà mai più noie del genere. Questo è qualcosa, no?

— Dovrebbe esserlo. Quanto le devo?

— Prima provi la mia roba, veda se funziona. Può tornare a pagare quando le pare.