«È semplicissimo, capisci. Le fondamenta della colonna di sostegno si trovavano in una zona geologicamente irrequieta, forse una palude, e adesso tutto l’edificio sta scendendo giù come un pistone. lo sono sempre a terra, sano e salvo, e guardo l’hotel che si abbassa al mio livello».
La sua traiettoria lo portò più vicino alla sezione inferiore dell’hotel, e per la prima volta udì il ruggito del fuoco. Per il momento le fiamme non riuscivano a scendere in basso (solo poche ferite aperte nel metallo indicavano che le travi portanti e le lastre erano torturate dal calore e dalle tensioni termiche), però il fuoco e i gas di combustione risalivano agli altri piani attraverso le trombe delle scale e i pozzi di ventilazione. La loro avanzata era contraddistinta da violente esplosioni di legname, vetro e barattoli di vernice. Il vento trascinava via nubi di fumo disseminate di faville ardenti.
«È davvero affascinante, quasi un privilegio, per quanto spaventoso, potersi trovare qui a terra e vedere con tanta chiarezza quello che succede all’hotel. Mi viene in mente la distruzione dell’Hindenburg. Comunque, anche se sono a terra sano e salvo, quella finestra al secondo piano è proprio vicinissima, e se voglio fare un salto dentro, così, soltanto per dare un’occhiatina, sarà meglio che pensi a come…»
Hasson colpì a piena forza la finestra. La sua ascesa a proiettile gli fece superare il campo d’interferenza gravitazionale del muro praticamente senza diminuzione di velocità. Afferrò la maniglia dell’intelaiatura da cui mancavano sei pannelli, i suoi piedi trovarono un appoggio instabile sull’orlo del nulla, e d’improvviso si trovò dentro l’hotel, col fiato grosso, su un pavimento a piastrelle pieno di detriti. Il rumore del fuoco era molto più forte, e il calore gli risaliva nel corpo dalle suole delle scarpe. Forse i pavimenti di quel piano non avrebbero retto per molti minuti.
Scrutò l’ambiente, senza badare troppo all’operatore televisivo che veleggiava fuori della finestra, al sicuro nel cielo, e distinse la sagoma di una vicina scalinata. All’interno dell’hotel erano stati completati solo i muri portanti, ed Hasson ebbe l’impressione di una poderosa immensità, di trovarsi su un campo di battaglia immerso nella notte, dove bagliori e lampi improvvisi tra foreste di colonne contrassegnavano dozzine di piccole scaramucce. Corse alla scalinata e cominciò a salire.
La lancia termica assicurata alla cintura riposava tranquilla contro il suo fianco sinistro, ma la pistola stava sfilandosi a causa dei movimenti del suo corpo. La prese in mano. Era quasi certo che Lutze e Theo Werry avessero seguito lo stesso percorso, per cui riteneva di essere al sicuro dalle bombe e dalle loro spolette di prossimità. Però era giunta l’ora di prepararsi a un incontro con Barry Lutze.
Quando aveva sparato ad Al Werry, il ragazzo si trovava al quarto piano, ma la salita verso il tetto doveva procedere a rilento per le ferite di cui soffriva e, presumibilmente, per la lentezza di Theo nel fare strada. Hasson stimò che poteva riuscire a raggiungerli all’ottavo piano. Si accertò che la pistola non avesse la sicura e comincio a contare i piani., procedendo in quel buio rotto da bagliori.
«Ci sono quattro rampe di scale fra ogni piano, il che significa che mi trovo al… oppure sono solo tre rampe? Forse sono più in alto di quanto…»
Hasson e Barry Lutze si videro nello stesso istante.
Lutze era fermo su un ampio pianerottolo e guardava in su. Più in alto, la figura china di Theo Werry avanzava piano su una rampa di scalini, pericolosissimi per l’assenza della ringhiera. Non appena Lutze si accorse della presenza di Hasson, si buttò in ginocchio e cominciò a sparare con la pistola rubata a Henry Corzyn. Hasson, che si era appena fermato, non aveva un posto per nascondersi, non aveva il tempo di gridare o di impostare una strategia. Era possibile solo una reazione istintiva.
Alzò la pistola e schiacciò il grilletto alla massima velocità possibile. Capiva benissimo di essere finito in quello che alcuni chiamavano “duello all’ultimo sangue”, una classica posizione di stallo, e che il risultato finale sarebbe stato determinato dai giri ciechi della ruota della fortuna, oltre che dall’abilità dei due avversari. La pistola rinculava di continuo contro la sua mano, ma mai con la velocità necessaria; sembravano trascorrere secoli fra un colpo e l’altro.
Successero contemporaneamente due cose. Una bomba scoppiò a uno dei piani inferiori, lanciando fiammate rosse e ambra lungo uno dei muri centrali; e nello stesso istante, come colpito dall’esplosione, Lutze cadde sulla schiena. Onde d’urto si trasmisero per tutto l’edificio, raggiungendo le travi portanti del pavimento e dando il via a una serie di esplosioni minori, ma Lutze non si mosse. Hasson corse al pianerottolo, la pistola pronta a sparare. Lutze giaceva con entrambe le mani contratte sulla fronte: i suoi occhi non vedevano più, la sua bocca era spalancata in un’espressione di sorpresa immobile.
Hasson voltò la testa e vide che Theo Werry era caduto in ginocchio. Il ragazzo era lontano solo pochi centimetri dall’orlo di quell’abisso artificiale che scendeva giù di parecchi piani, e si stava rimettendo in piedi a fatica. Hasson aprì la bocca per lanciargli un urlo d’avvertimento, ma ebbe l’improvvisa visione di quello che poteva accadere se avesse spaventato Theo. Allora balzò sulle scale, abbracciò Theo e lo allontanò dal baratro. Il ragazzo prese a divincolarsi.
— È tutto a posto, Theo — gli disse con voce ferma. — Sono Rob Hasson.
Theo smise di lottare. — Il signor Haldane?
— È quello che volevo dire. Vieni, adesso usciamo. Hasson afferrò una cinghia del corpetto del ragazzo e lo spinse verso il pianerottolo che aveva appena lasciato. Lo guidò oltre il corpo di Lutze, lontano dalla bocca spalancata della tromba delle scale, sino a una finestra del muro opposto. Fuori, il mondo buio sembrava tranquillo, normale e invitante. Hasson infilò in tasca la pistola, tolse dalla cintura la lancia termica e aggiustò i comandi.
— Non capisco — disse Theo, girando il viso da una parte all’altra. — Come ha fatto ad arrivare qui?
— Come te, figliolo.
— Ma credevo che non potesse volare.
— Ai miei tempi ho combinato qualcosa anch’io. — Hasson accese la lancia, trasformandola in una spada magica, d’un bianco accecante.
A quella luce, il viso sporco di Theo rivelò tutta la sua tensione. — Cos’è successo a Barry?
— Aveva una pistola. Ha cominciato a spararmi, e io ho dovuto rispondere al fuoco. — Sperando che Theo non si spingesse oltre con le domande, Hasson si voltò verso la finestra e appoggiò la punta della lancia al pannello più vicino. Il vetro non offrì nessuna resistenza alla fiamma. Si sciolse in una pioggerellina di gocce rosate che scivolarono lungo la finestra.
— Qualche minuto fa ho sentito mio padre che mi gridava qualcosa — disse Theo, alzando la voce per superare i rumori di sottofondo. — Adesso dov’è?
— Ne parleremo dopo, Theo. Adesso dobbiamo preoccuparci solo di…
— Barry gli ha sparato?
— Io… Mi dispiace, è proprio andata così. — Hasson spostò la punta della lancia termica e cominciò a tagliare un incrocio di sbarre. — Senti, Theo, sto aprendo un foro in una finestra, e tra un paio di minuti saremo fuori di qui. Voglio che tu ti tenga pronto a volare.
Theo cercò il suo braccio e lo strinse. — È morto, vero?
— Mi spiace… Sì. — Incapace di guardare il ragazzo, Hasson concentrò tutta l’attenzione sulla finestra, e restò solo leggermente perplesso quando vide che su un pannello vicino alla sua faccia era apparso un minuscolo foro circolare. Il ribollire di pensieri (Al Werry, suo figlio, la necessità di uscire dall’hotel in fiamme) era così grande che l’improvvisa presenza del foro nel vetro era irrilevante, un fenomeno marginale di scarsa importanza. Forse era il calore della lancia che alterava la struttura del vetro e creava…?