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Adesso la salita era più complicata perché mancava la ringhiera. La corsa prolungata, faticosa, gli aveva reso le gambe deboli, difficili da guidare. Le ginocchia tendevano a piegarsi, i piedi a sbagliare la mira di qualche centimetro, ma al suo fianco non c’era ringhiera, per cui cadere avrebbe significato precipitare nell’inferno del primo piano.

Oltre tutto, al momento si trovava in una parte dell’hotel che, a quanto gli risultava, nessuno aveva più percorso da quando Morlacher aveva sistemato le bombe, e questo comportava rischi ulteriori di essere spazzato nel nulla da una mano invisibile. La poca capacità di connettere che gli restava gli disse che bisognava correre il rischio: per sfuggire all’hotel doveva salire fino al tetto e scoprire l’uscita che Barry Lutze e gli altri ragazzi usavano. Era una prospettiva lugubre e pericolosa, ma non aveva altre possibilità.

Era riuscito a proiettare i suoi pensieri un poco in là nel futuro. Vincendo i dolori lancinanti alle gambe e l’affannosità estrema del respiro, cominciò a chiedersi se le scale che stava salendo terminassero in una porta sul tetto.

Erano previsti giardini a terrazze e piscine sulla sommità dell’edificio, per cui era probabile che il tetto si potesse raggiungere anche attraverso le scale, oltre che con l’ascensore. Sorretto dalla speranza di riuscire a trovare, all’improvviso e senza difficoltà, una via d’uscita, puntò gli occhi verso l’alto. Si chiese se sarebbe riuscito a identificare l’ultimo piano.

Quando ci arrivò, non ebbe difficoltà a riconoscerlo. L’ultimo piano dell’hotel era invaso da una spessa, impenetrabile cortina di fumo e gas di combustione che si estendeva quasi dal pavimento all’invisibile soffitto.

Hasson ricadde, sconvolto, sugli scalini che dovevano portarlo all’ultimo piano. Osservò l’ambiente e si sentì assediato da ogni lato. Il limite inferiore della cortina di fumo, alta qualche metro, era delineato con nettezza sorprendente. Sobbalzava e tremava e si gonfiava come la superficie di un brodo a fuoco lento osservato alla lente d’ingrandimento. Tra il fumo e il pavimento si stendeva un sottile strato d’aria pulita. Scrutando attraverso quel sandwich traslucido, riuscì a scorgere l’inizio di un’altra rampa di scale, dalla parte opposta del pianerottolo. Gli scalini erano più stretti degli altri, e lui si convinse che portassero direttamente a una porta che dava sul soffitto.

Si sforzò di riposare per qualche secondo, respirando ossigeno a pieni polmoni, poi si alzò, si tappò la bocca, e corse verso gli scalini. I suoi piedi li trovarono automaticamente, e lui si lanciò alla cieca verso l’alto, correndo alla massima velocità. Sapeva che una sola inspirazione del fumo che lo circondava poteva essergli fatale. E subito si affacciò un nuovo pensiero: come faceva a essere sicuro che quegli scalini avessero la stessa disposizione degli altri?

Come faceva a sapere che non sarebbe precipitato da un punto senza ringhiera? Respinse l’idea e continuò a correre, lasciando scorrere la mano sul muro scabro, finché raggiunse un piccolo pianerottolo e una porta di metallo. La porta era sprangata da un catenaccio, inamovibile.

Quasi grato che la porta, così solida, non lo spingesse a perdere tempo nel tentativo di forzarla, si girò e rifece la corsa all’indietro. Arrivò al punto di partenza proprio quando i polmoni stavano per scoppiargli, e si abbatté sugli scalini.

Residui di fumo acre gli tormentavano le narici e la gola, scatenando un attacco di tosse. Si aggrappò ai gradini fino al termine delle convulsioni. Una parte del suo cervello non voleva lasciarsi coinvolgere. Utilizzò quei momenti di distacco astrale per analizzare la situazione.

Da che era entrato all’Hotel Chinook, la sua vita dipendeva dall’interazione di diverse forze. Alcuni dei fattori contro cui aveva lottato erano umani, altri puramente materiali, e non tutti avevano giocato a suo sfavore. La forma e la topografia dell’edificio, ad esempio, gli avevano concesso un po’ di respiro, un po’ di tempo per agire.

Un incendio era come un primitivo motore a getto: aveva bisogno di risucchiare aria e di canali di sfogo prima di raggiungere tutto il suo mortale splendore. Il fatto che il tetto dell’hotel fosse ancora intatto, come dimostrava il fumo intrappolato all’ultimo piano, aveva impedito al fuoco di salire in alto, ne aveva rallentato il percorso, ne aveva modificato lo sviluppo naturale. Se quello strato di fumo e gas non si fosse temporaneamente fermato, lui, Rob Hasson, sarebbe già scomparso, distrutto e incenerito da parecchio tempo. Era spiacevole, anche se ovviamente il mondo delle leggi fisiche non aveva nessuna colpa, che ora quella nube tossica gli rendesse impossibile superare l’unica via d’uscita sull’universo esterno…

Molto più in basso, un cataclisma travolse parte della struttura di scalini su cui era adagiato. Ci fu un sommovimento gigantesco, un rumore di tuono: intere rampe di scala cedevano, precipitavano giù come carte da gioco distrattamente sparpagliate. Correnti di gas caldi salirono dalla tromba centrale al suo fianco, agitando la cortina di fumo.

Hasson uscì in un gemito involontario quando gli scalini su cui era seduto ebbero un primo tremito. Strisciò fino al pavimento, schiacciandosi a terra per rimanere entro la fascia di aria pulita, trattenendo il fiato ogni volta che la nube di fumo si abbassava fino ad avvilupparlo. Ormai l’aria era contaminata anche a livello del pavimento, tanto da bruciargli il tessuto dei polmoni, e lui cominciò a tossire piano. Macchie rosse presero a pulsare davanti ai suoi occhi.

Strizzò gli occhi, cercando di vedere meglio attraverso quel continuum bidimensionale, e scoprì che la luce rossa non era un fenomeno soggettivo, bensì qualcosa che aveva origine nel mondo esterno. Guidato da impulsi incomprensibili, strisciò avanti, verso la fonte di quella luminosità intermittente. Alla fine, dopo un tempo incalcolabile, si trovò sdraiato sulla riva di un lago circolare.

Scosse la testa: doveva ristabilire il senso delle proporzioni, la capacità di studiare l’ambiente.

Quello che vedeva non era un lago, o una palude, o una pozzanghera. Era… una tromba d’ascensore. Guardò giù, socchiudendo gli occhi a fessura per combattere il calore che saliva dal basso. Guardò quelle sezioni telescopiche sempre più piccole, quei centri concentrici ora bui, ora illuminati dal fuoco arancione, e vide sul fondo lontano un occhio piccolo, nero, immobile.

L’occhio lo ipnotizzò, lo affascinò, lo sedusse.

Hasson se ne liberò con uno sforzo. Rivolse l’attenzione alla massa oblunga della batteria, ancora chiusa nella sua sinistra. Rotolò di fianco e poi, lavorando con la precisione languida di un uomo in trance, inserì la batteria nel morsetto vuoto. Si accorse che l’intelaiatura metallica della batteria era segnata dal fuoco, il che significava che forse era stata colpita dalla lancia termica che aveva ucciso Barry Lutze. Tolse un’incrostazione nera dai poli e li collegò al generatore di antigravità della sua cintura.

Adesso doveva solo girare il comando d’avvio per dare energia all’apparecchio, infilarsi nella tromba dell’ascensore e volare giù, verso la salvezza. Si concesse un attimo di preparazione.

Naturalmente era un metodo molto poco ortodosso per decollare, un metodo che nessuno dei numerosi manuali di volo raccomandava. Dentro la tromba dell’ascensore il campo antigravità non avrebbe funzionato per la vicinanza delle pareti, il che significava che sarebbe precipitato per quattordici piani e più, che sarebbe piombato ben oltre l’estremità inferiore dell’hotel, prima che il campo lo sollevasse in alto. Complessivamente si trattava di una caduta libera d’una sessantina di metri, e siccome il suo corpo offriva scarsa resistenza all’aria avrebbe percorso la distanza in quattro secondi circa.

Era senz’altro un modo scomodo e spiacevole per iniziare un volo, il tipo di cosa che avrebbe sconvolto una persona nervosa o un principiante; ma non era niente, proprio niente, per un poliziotto che una volta, durante un’azione, era precipitato per tremila metri…