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Hasson girò il comando sul pannello della cintura, e uscì in un sorriso tremulo, incredulo, quando vide che la spia non si accendeva. Il messaggio, se lo accettava, era che il suo corpetto non funzionava, che non gli restavano vie di fuga.

«Adesso ti racconto i tre significati che questa faccenda potrebbe avere» si disse, calmandosi con quella pedanteria da libro di testo. «Poi ti racconterò l’unica cosa che significa sul serio. Potrebbe significare che non ricevi corrente, ma la cosa non è certa. Forse la corrente arriva, però il microcircuito del monitor potrebbe aver deciso che la batteria non è in condizioni perfette. Il microcircuito non sa proprio cosa sia un’emergenza. Per lui ogni decollo è l’inizio di un volo dimostrativo di otto ore.

«Potrebbe significare che hai danneggiato il generatore AG quando hai colpito quella finestra al secondo piano, ma non è molto probabile. Questi apparecchi sono in grado di sopportare sforzi ben peggiori.

«Potrebbe significare che è saltata la spia. A volte è successo, anche se non molto spesso».

Ci fu un rombo più forte, più vicino e più minaccioso. Veniva dagli scalini che aveva appena abbandonato. La cortina di fumo entrò in agitazione, si schiacciò sulla sua testa come un diaframma. Sempre girato di fianco, Hasson alzò le ginocchia e chiuse gli occhi.

«E l’unica cosa che significa sul serio, Rob, signor Hasson, eccellenza, è che preferiresti rimanertene qui a soffocare piuttosto che fare quel salto. E chi potrebbe rimproverarti? Chi, sano di mente, deciderebbe di precipitare per quattordici piani di un edificio in fiamme… per poi uscire in aria più in alto dell’Empire State Building… con tanto spazio sotto i piedi, spazio per cadere… senza nemmeno sapere se il corpetto AG funziona o no? È impossibile. Irragionevole. Eppure… Eppure…»

Hasson si scosse, si avvicinò all’orlo della tromba e guardò giù in quella profondità sempre più remota. Fissò il grande disco centrale, nero, oltre il quale lo aspettava il mondo, e capì che non era affatto un occhio, che suo padre non lo stava guardando, che nessuno lo stava guardando.

Era solo. Toccava soltanto a lui decidere se preferiva morire, o nascere una seconda volta.

Decise rilassando i muscoli, lasciandosi cadere in avanti, precipitando nell’ignoto come se si trattasse di un sogno.

Quattro secondi.

Stando alla normale scala cronologica dell’uomo, quattro secondi sono un periodo brevissimo, ma Hasson riceveva impressioni sensoriali incomparabilmente vivide a velocità accelerata, e per lui tutti gli orologi si fermarono, i cieli smisero di ruotare.

Ebbe tutto il tempo di scrutare i campi di battaglia fiammeggianti che erano i piani dell’hotel, di udire i rumori possenti generati dal fuoco di piano in piano, di sopportare il senso di vuoto allo stomaco, sempre più forte, che gli diceva che la sua velocità andava aumentando in risposta al richiamo mortale e silenzioso della Terra, di provare l’alternarsi di luce e ombra, di caldo e freddo relativo, di pensare, di progettare, di sognare, di gridare…

E quando, finalmente, nell’oscurità trafitta dal mormorio del vento, con l’hotel che si allontanava sopra la sua testa come un sole nero, sentì che il corpetto antigravitazionale lo risollevava, riportava ordine in quel caos gemebondo, era davvero nato per la seconda volta.

11

Al Werry ed Henry Corzyn vennero sepolti in due tombe vicine, sul pendio assolato, esposto a sud, di un cimitero nei pressi di Tripletree.

Hasson, originario di un’isola dove la cremazione era antica abitudine, non aveva mai assistito a una sepoltura tradizionale. Le cerimonie funebri viste in televisione lo avevano preparato a un grande dispiego di tristezza, ma la realtà dei fatti si rivelò stranamente tranquilla. Il ritorno alla terra gli comunicò una sensazione di giustizia che lo lasciò, se non proprio confortato, in qualche misura riconciliato con le ragioni della vita e della morte.

Durante la cerimonia si tenne in disparte dal gruppo di parenti stretti, perché non desiderava parlare dei suoi rapporti con Werry a nessuno in particolare. Sybil Werry, giunta da Vancouver, restò vicina al figlio. Era una donna minuta, nera di capelli, e la sua corporatura fragile faceva sembrare alto, sorprendentemente maturo, il ragazzo al suo fianco. Theo Werry tenne la testa sollevata, non cercò di nascondere le lacrime, e seguì col bastone a sensori l’interramento della bara del padre. Guardando il ragazzo, Hasson poteva già vedere sulla sua faccia i lineamenti dell’uomo che sarebbe diventato.

May Carpenter e sua madre, discretamente velate, facevano parte di un gruppo separato che comprendeva il dottor Drew Collins e altra gente ignota ad Hasson. May e Ginny erano uscite di casa qualche ora prima dell’arrivo di Sybil, trasferendosi in un’altra zona di Tripletree.

Non lontano da loro c’erano le figure disperate di Victor Quigg e Oliver Fan, entrambi irriconoscibili nell’abito nero da cerimonia. E dietro tutti, ad accomunarli su uno sfondo generale, la città era linda e indifferente come sempre, sospesa sotto i colori brillanti delle autostrade aeree. Hasson vedeva tutto con chiarezza estrema, minuziosa: la sua memoria avrebbe rivissuto molte volte quella scena.

Appena tornato in casa si ritirò nella sua stanza. Il sole batteva sulle tendine chiuse, immergendo tutto in un color pergamena. Tirò fuori le sue cose e, lavorando con calma concentrazione, cominciò a infilarle in un gruppo di contenitori da volo. Lo spazio non bastava per tutto quello che le sue valigie contenevano, ma non ebbe esitazioni a scegliere le cose più necessarie e ad ammassare le altre sul letto. Stava lavorando da circa cinque minuti quando udì dei passi sul pianerottolo, e Theo Werry entrò nella stanza. Il ragazzo si fermò un attimo, tastando il pavimento col bastone a sensori, poi si avvicinò ad Hasson.

— Te ne vai davvero, Rob? — gli chiese, con espressione tesa. — Voglio dire adesso, oggi pomeriggio? Hasson continuò a mettere via la roba. — Se parto adesso, arrivo alla costa occidentale prima di sera.

— E il processo? Non dovresti aspettare?

— Ho perso interesse per i processi — rispose Hasson. — Devo partecipare a un altro processo m Inghilterra, e non m’interessa più nemmeno quello.

— Ti cercheranno.

— Il mondo è grande, Theo, e io voglio scorrazzare in ogni direzione. — Hasson si fermò, per rendere il doveroso omaggio alla presenza del ragazzo. — È una frase di Stephen Leacock.

Theo annuì, poi sedette sull’orlo del letto. — Lo leggerò, un giorno o l’altro.

— Certo. — Un improvviso risveglio di partecipazione umana indusse Hasson a chiedersi se non pensasse troppo a se stesso. — Sei sicuro di non volerti fare operare? Nessuno t’impedirebbe di far operare almeno un occhio.

— Sono sicuro, grazie. — Theo parlava con la voce di un adulto. — Posso aspettare un paio d’anni.

— Se pensassi che ti serve…

— È il minimo che io possa fare. — Theo sorrise e si alzò, sciogliendo Hasson da ogni obbligo. — Me ne vado anch’io, sai. Ho parlato con la mamma stanotte, e lei dice che ha un sacco di posto per me a Vancouver.

— Magnifico — disse Hasson, imbarazzato. — Senti, Theo, un giorno o l’altro vengo a trovarti. Okay?

— D’accordo. — Il ragazzo sorrise di nuovo, troppo cortese per far vedere che non credeva alla promessa, strinse la mano di Hasson e uscì dalla stanza.

Hasson lo guardò scomparire, poi tornò a riempire i contenitori con l’essenziale per un lungo volo. Non aveva in mente nessuna destinazione precisa. Sentiva solo la necessità istintiva di viaggiare a sud e a ovest, d’iniziare la sua nuova vita stagliandosi contro la stupefacente immensità dell’Oceano Pacifico: doveva recuperare gli anni persi nel provincialismo, nel conformismo, perdendosi nelle zone che il tempo e la storia non avevano ancora sfiorato. Pochi minuti dopo, terminati i preparativi, accantonati i rimorsi, si alzò nell’aria blu, tranquilla, di Tripletree, e iniziò una lunga passeggiata in cielo.