Quando la macchina si fermò, Hasson notò un altro veicolo (una vettura sportiva color vinaccia, dall’aria costosa) parcheggiato appena oltre la rete di ferro. Ci stava appoggiato un uomo sulla trentina, con un cappellino di pelo e un fucile da caccia in mano. Indossava un completo da volo nero, lucido, con sopra un corpetto antigravità d’un arancione fluorescente. Quando sentì arrivare la loro macchina girò un attimo la testa verso Werry e Hasson, riflettendo i raggi del sole nelle lenti a specchio degli occhiali, poi ricominciò a studiare, con estrema concentrazione, la parte di hotel sopra di sé.
— È Buck Morlacher — disse Werry. — Fa la guardia al patrimonio familiare.
— Sul serio? Con un fucile?
— È solo per fare scena, più che altro. Buck si diverte a immaginare di essere un uomo di frontiera.
Hasson si fermò mentre stava aprendo la portiera. — Non ha i contenitori. Non dirmi che vola con un fucile tra le mani.
— Impossibile! — Werry abbassò un poco la punta del berretto. — Non avrebbe molta importanza, comunque. Non c’è in giro nessuno a cui possa cadere in testa.
— Sì, ma… — Hasson smise di parlare quando capì che stava per intromettersi in faccende che non erano di sua competenza. Una delle misure legislative più generali e indispensabili relative al volo individuale era quella che proibiva il trasporto di oggetti solidi, se non in speciali contenitori appositamente costruiti. Nonostante quella precauzione, il tasso annuale di decessi a causa di oggetti caduti era mostruosamente elevato, e in ogni paese del mondo l’infrazione a quella legge comportava pene severissime. L’istinto diceva ad Hasson che Morlacher aveva appena volato col fucile, o che si apprestava a farlo. Si sentì profondamente sollevato all’idea che non fosse compito suo far rispettare la legge. Era un lavoro per un uomo efficiente, duro, perfettamente padrone di sé.
— Vuoi scendere? — chiese Werry, con un’altra occhiata all’orologio.
— Da qui non vedo niente. — Hasson spalancò la portiera, spostò i piedi di fianco e rabbrividì: la sua spina dorsale si era immobilizzata, con una sensazione simile a quella di un osso sfregato sulla smitsonite. Tirò il fiato e cominciò, da diversi angoli, a cercare un punto d’appoggio sulla carrozzeria. Era alle prese col difficile problema meccanico di far assumere la posizione eretta al suo scheletro. Werry scese dall’altra parte senza accorgersene, si aggiustò il berretto, controllò che i suoi stivali lucidissimi brillassero sulla neve, lisciò l’uniforme sulla schiena e raggiunse Morlacher a passi misurati.
— ’Giorno, Buck — disse. — Vuoi andare a caccia di anitre?
— Vattene, Al. Ho da fare. — Morlacher continuò a guardare in alto. I suoi occhi erano nascosti dai riflessi del cielo azzurro. Era un individuo grosso, obeso, coi capelli color rame e un triangolo di rosa acceso su ogni guancia. Teneva le labbra tirate all’indietro, mettendo in mostra denti troppo solidi e robusti, quasi inumani, con enormi molari al posto degli incisivi. Hasson si sentì subito spaventato da quell’uomo.
— Lo vedo che hai da fare — rispose, accomodante, Werry. — Solo mi chiedevo che cosa hai da fare.
— Che ti succede? — Un’espressione impaziente comparve sulla faccia di Morlacher, che abbassò la testa a fissare Werry. — Lo sai che faccio il lavoro che dovresti fare tu, se avessi un po’ di fegato. Perché non te ne torni nella tua bella macchinina e mi lasci in pace? D’accordo?
Werry guardò Hasson, che era riuscito a mettersi in piedi con le braccia distese sulla sommità della portiera. — Adesso stammi bene a sentire, Buck — disse Werry. — Che cosa ti fa…?
— Stanotte sono tornati di nuovo — lo interruppe Morlacher. — Hanno tenuto una delle loro luride riunioni, hanno violato la mia proprietà, l’hanno violata, mi senti? E tu cosa fai? Niente. Ecco cosa fai. Niente! — Morlacher si rabbuiò. Le sue sopracciglia anemiche si inarcarono, e il suo sguardo celato dalle lenti a specchio si puntò su Hasson, quasi si accorgesse di lui per la prima volta. Hasson, che stava ancora cercando di decidere se riusciva o meno a reggersi in piedi senza appoggi, fissò lo sguardo in lontananza. Distinse un movimento al limitare della visuale e alzò gli occhi: un volatore stava scendendo giù dall’hotel.
— Forse ce n’è dentro ancora uno o due — continuò Morlacher — e, se è così, Starr e io li scoveremo e ce ne occuperemo personalmente. Come ai vecchi tempi.
— Non c’è bisogno di dire certe cose — disse Werry. Fissava, perplesso, Morlacher quando il volatore gli si avvicinò alle spalle. Era un ragazzo con pochi ciuffi di barba. Indossava una tuta da volo blu e portava a tracolla un fucile ad aria compressa. Sotto gli occhi di Hasson, portò una mano alla cintura e spense, deliberatamente, il campo antigravità mentre si trovava ancora a un’altezza di tre metri dal suolo. Cadde immediatamente, ma la spinta residua della traiettoria curva lo mandò a sbattere contro le spalle di Werry. Werry volò a terra, il viso sepolto nella neve.
— Scusa, Al. Scusa. Scusa. — Il ragazzo aiutò Werry a rimettersi in piedi e cominciò a scrollargli via la neve dall’uniforme. — Si è trattato solo di un incidente. Mi ha abbagliato il chiarore della neve. — E intanto strizzava l’occhio a Morlacher.
Mentre fissava Al Werry, Hasson sentì l’adrenalina invadergli il corpo. Aspettava che l’altro reagisse come la situazione imponeva. Werry si rimise in piedi e fissò, incerto, il ragazzo che gli stava davanti, ripulendogli con aria eccessivamente premurosa l’uniforme. «Adesso» implorò Hasson. «Adesso, prima che passi altro tempo. Adesso che lo hai davanti in tutta la sua arroganza».
Werry scosse la testa e prese, disastrosamente, a sorridere. — La sai una cosa, Starr Pridgeon? Non credo che riuscirai mai a controllare quel corpetto.
— La sai una cosa, Al? Penso che tu abbia ragione. — Il ragazzo scoppiò a ridere, e a metà della risata, come aveva fatto Morlacher, si girò e puntò gli occhi su Hasson, quasi lo vedesse per la prima volta. Hasson, veterano di migliaia di incontri simili, riconobbe tutti i manierismi dell’imitazione e dedusse immediatamente che, dei due, Morlacher era la figura preminente. Restò appoggiato alla portiera della macchina, cercando di raddrizzare la schiena mentre Pridgeon gli si avvicinava. Le sue articolazioni stavano gemendo di dolore. Erano come cuscinetti metallici fuori uso, e non gli permettevano di muoversi.
— Questo dev’essere il cugino inglese di Al — disse Pridgeon. — Cosa ne pensi del Canada, cugino di Al?
— Non ho ancora avuto il tempo di farmi un’opinione — rispose seccamente Hasson.
Pridgeon guardò gli altri. — Ma come parla bene! — Si girò di nuovo verso Hasson. — Quel piccolo incidente non è la cosa più stupida che tu abbia mai visto?
— Non ne ho visto molto.
— No? — Pridgeon lo studiò un attimo con aria critica. — Sei zoppo o roba del genere?
Orripilato, Hasson scoprì che le proprie labbra si atteggiavano a un sorriso. — Più o meno.
— Uh! — Pridgeon, con aria insoddisfatta, si allontanò, arrivò a fianco di Morlacher, e Hasson capì che l’altro lo aveva richiamato con un leggero cenno della testa. Il che confermava la sua supposizione circa i rapporti fra i due uomini, ma non gli serviva a niente.
— Hai visto qualcosa, lassù? — chiese Morlacher a Pridgeon, come fossero soli e non fosse accaduto niente.
— No. Se c’è qualcuno, sta lontano dalle finestre.