Carson si guardò intorno freneticamente. Una pietra giaceva sulla sabbia, a poco più di un metro da lui, l’oggetto più simile a un’arma. Non era grande, ma aveva i bordi acuminati, come una scheggia di selce. Una selce azzurra.
L’afferrò, si rannicchiò su se stesso per affrontare il nemico. Stava arrivando in fretta, più in fretta di quanto lui potesse correre.
Non c’era tempo di pensare in che modo l’avrebbe affrontato. E in ogni caso, come avrebbe potuto elaborare una tattica, contro quella creatura la cui forza, le cui caratteristiche, la cui tecnica di combattimento, lui non conosceva? Rotolava così in fretta da apparire una sfera perfetta.
Dieci metri. Cinque. E poi, si arrestò.
O piuttosto, qualcosa l’aveva arrestato. D’improvviso, il lato anteriore della sfera si appiattì come se fosse andato a sbattere contro un muro invisibile. Rimbalzò, sì, rimbalzò indietro.
Poi, tornò a rotolare avanti, ma più lento, con più cautela. Si fermò un’altra volta, allo stesso punto. Tentò di nuovo, qualche metro più a lato.
Sì, c’era una barriera, lì, di qualche tipo. Allora, qualcosa scattò nella mente di Carson. Quel pensiero proiettato in lui dall’entità che li aveva portati in quel luogo. «… il maggior fisico dell’uno o dell’altro non sarà un fattore decisivo. C’è una barriera».
Un campo di forza, naturalmente. Non un campo netziano, ben noto alla scienza della Terra, poiché in tal caso la barriera avrebbe crepitato, irradiando luce. Questa invece era invisibile e silenziosa.
Era un muro che correva da un lato all’altro di quell’emisfero capovolto. Carson non dovette controllare di persona: lo stava facendo il Rotolante al suo posto. Stava infatti procedendo via via lungo la barriera, cercando in essa un’interruzione che non c’era.
Carson fece una mezza dozzina di passi in avanti, saggiando davanti a sé con la mano sinistra protesa. E infine toccò la barriera: sembrava liscia, cedevole, come un foglio di gomma più che una lastra di vetro. Calda al tocco, ma non più della sabbia sotto i piedi. Ed era completamente invisibile, perfino da vicino.
Carson lasciò cadere la pietra, appoggiò entrambe le mani contro la barriera, e spinse. La barriera parve cedere, soltanto un po’. Ma si rifiutò di cedere oltre, anche quando la spinse con tutto il suo peso. Gli diede la sensazione di un foglio di gomma sorretto da una lastra d’acciaio: una limitata elasticità, e poi una robustezza invincibile.
Carson si alzò in punta di piedi, arrivando più in alto che poté. La barriera continuava anche lassù.
Vide il Rotolante tornare indietro, dopo aver raggiunto l’estremità dell’arena. La sensazione di nausea investì nuovamente Carson, il quale balzò indietro, istintivamente, quando il nemico gli passò davanti, senza fermarsi.
Ma la barriera, si arrestava forse al livello del suolo? Carson s’inginocchiò e scavò nella sabbia. Era cedevole, leggera, facile da scavare. Ma, mezzo metro più sotto, la barriera continuava ininterrotta.
Il Rotolante stava tornando di nuovo indietro. Ovviamente, non era riuscito a trovare nessun varco nella barriera, né a destra, né a sinistra.
Eppure, doveva esserci un modo per passare, pensò Carson. Qualche modo per ingaggiare un corpo a corpo. Altrimenti, in che modo avrebbero potuto combattere?
Ma adesso non c’era fretta di scoprirlo. C’erano altre cose a cui pensare, prima. Il Rotolante era tornato indietro e si era fermato sull’altro lato della barriera, proprio davanti a lui, sì e no a un metro e mezzo di distanza. Pareva che lo stesse studiando anche se, per quanto ci provasse, Carson non riuscì a distinguere alcuna traccia di organi sensori, sulla superficie esterna della creatura. Niente che assomigliasse a occhi, orecchie, o anche soltanto a una bocca. C’erano, tuttavia — ora se ne accorse — una serie di solchi, circa una dozzina, e all’improvviso vide due tentacoli sporgersi fuori dai solchi e sprofondare nella sabbia, come per saggiarne la consistenza. Tentacoli di circa tre centimetri di diametro, e lunghi mezzo metro. Erano retrattili, e quando non venivano usati, erano tenuti dentro i solchi. Quando la creatura rotolava, restavano dentro, per cui sembravano non aver niente a che fare col suo sistema di locomozione. Questo, da ciò che Carson poteva giudicare, doveva dipendere da qualche spostamento — come, era impossibile anche soltanto immaginarlo — del suo centro di gravità.
Carson rabbrividì, fissando la creatura. Era aliena, completamente aliena, orribilmente diversa da tutto ciò che viveva sulla Terra, e anche dalle altre forme di vita trovate sugli altri pianeti del sistema solare. E in qualche modo, istintivamente, Carson sapeva che la sua mente era aliena almeno quanto il corpo.
Ma doveva tentare. Se il Rotolante non aveva alcun potere telepatico, il tentativo era destinato a fallire… eppure Carson pensava che la creatura l’avesse. Pochi minuti prima aveva proiettato qualcosa che non era fisico, quando si era diretta per la prima volta verso di lui. Un’ondata d’odio quasi tangibile.
Se era in grado di proiettare ciò, forse poteva leggergli altrettanto bene la mente, o quanto meno, quanto bastava per il suo scopo.
Ostentatamente, Carson raccolse la pietra che era stata la sua unica arma, poi la fece cadere al suolo con gesto di rinuncia, e sollevò le mani vuote, i palmi all’insù, davanti all’alieno.
Parlò ad alta voce, sapendo che, se anche le parole da lui pronunciate sarebbero state prive di significato per la creatura che lo fronteggiava, il fatto stesso di pronunciarle avrebbe messo a fuoco nel modo migliore i suoi pensieri.
— Perché non può esserci pace tra noi? — disse, e la sua voce risuonò strana in quel profondo silenzio. — L’Entità che ci ha portato qui ci ha detto ciò che accadrà, se le nostre razze combatteranno — l’estinzione dell’una e la regressione alla barbarie dell’altra. L’esito della battaglia, ha detto l’Entità, dipende da ciò che faremo qui. Perché non possiamo accordarci per una pace durevole, la tua razza nella tua galassia, e noi nella nostra?
Carson vuotò la sua mente d’ogni altro pensiero, aspettando la risposta.
Giunse, e lo fece barcollare all’indietro. Si ritrasse di parecchi metri, colmo di orrore, davanti alla profondità e all’intensità dell’odio e della bramosia di uccidere che fiammeggiavano nelle rosse immagini proiettate contro di lui. Non come parole articolate — come gli erano giunti i pensieri dell’Entità — ma come ondate successive d’una raccapricciante emozione.
Per un attimo, che gli parve un’eternità, dovette lottare contro l’impatto mentale di quell’odio, per liberare da esso la sua mente e cacciar via i pensieri alieni che l’avevano invasa, insozzandola. Aveva voglia di vomitare.
Lentamente, la sua mente tornò a schiarirsi, allo stesso modo in cui un uomo, svegliatosi da un incubo, spazza via dal cervello il rigurgito di paura che l’ha invaso. Era ancora in preda all’affanno, e si sentiva debole, ma riusciva a pensare.
Fissò il Rotolante. Era rimasto immobile, durante il breve, violentissimo scontro mentale. Ora ruotò di un metro o poco più su un lato, avvicinandosi al più vicino cespuglio azzurro. Tre tentacoli schizzarono fuori dai solchi e cominciarono ad esplorare il cespuglio.
— D’accordo, — disse Carson, — sarà la guerra, allora. — Esibì un sorriso forzato. — Se ho ben capito la tua risposta, la pace non è proprio di tuo gusto. — E, poiché dopotutto era giovane, non seppe resistere all’impulso di esclamare, in tono melodrammatico: — Fino alla morte!
Ma la sua frase, in quel profondo silenzio, suonò assai sciocca, alle sue stesse orecchie. Si rese conto che quel duello era fino alla morte. Non soltanto la sua morte o quella della creatura rossa e sferica, che nella sua mente aveva battezzato “Rotolante”, ma la morte dell’intera razza dell’uno o dell’altro di loro. La fine della razza umana, se fosse stato lui a fallire.