Il secondo lancio di Carson mancò il bersaglio di oltre un metro, e il terzo lancio fu corto. Il Rotolante era fuori tiro… o quanto meno, fuori tiro per un proiettile abbastanza massiccio da nuocergli.
Carson sogghignò. Aveva vinto il primo round. Ma…
Smise subito di sogghignare quando si chinò a esaminare il polpaccio ferito. L’orlo tagliente della pietra aveva lasciato un taglio profondo, lungo parecchi centimetri. Sanguinava abbondantemente, ma Carson non pensò che fosse arrivato tanto in profondità da troncargli un’arteria. Se avesse smesso di sanguinare da solo, bene. Altrimenti si sarebbe trovato nei guai.
C’era comunque una cosa da scoprire, che aveva la precedenza su quel taglio: la natura della barriera.
Carson avanzò di nuovo, questa volta con le mani protese; trovò la barriera, poi, tenendo una mano appoggiata contro di essa, vi scagliò contro un pugno di sabbia raccolto con l’altra mano. La sabbia passò. La sua mano, no.
Materia organica contro materia inorganica? No, perché la lucertola morta era passata, e una lucertola, viva o morta, era senz’altro materia organica. E la vita vegetale? Carson spezzò un ramoscello e lo spinse contro la barriera. Il ramoscello passò, senza incontrare resistenza, ma quando le dita che stringevano il ramoscello giunsero alla barriera, furono arrestate.
Lui non poteva attraversarla, né poteva farlo il Rotolante. Ma pietre, sabbia e lucertola morta…
E una lucertola viva? Si mise in caccia fra i cespugli, fino a quando ne trovò una e la catturò. La gettò con delicatezza contro la barriera: l’animale rimbalzò indietro e corse via, attraverso la sabbia azzurra.
Ciò gli dava, quanto meno, una risposta. La barriera impediva il passaggio alle creature vive. Le creature morte e la materia inorganica, invece, la superavano senza difficoltà.
Appurato questo, Carson tornò a occuparsi della ferita alla gamba. Sanguinava assai meno, e ciò significava che non doveva preoccuparsi di mettersi un laccio emostatico. Ma avrebbe dovuto trovare un po’ d’acqua, sempre che ce ne fosse di disponibile, per lavare la ferita.
Acqua! A questo pensiero, si accorse di essere tremendamente assetato. Doveva trovare l’acqua, nel caso in cui quel duello si fosse prolungato troppo.
Zoppicando leggermente, s’incamminò per compiere il giro completo della sua metà dell’arena. Guidandosi con una mano lungo la barriera, s’incamminò verso destra finché non arrivò alla parete curva dell’emisfero. Vista da vicino, era di un azzurro-grigio smorto, e al tatto dava la stessa sensazione della barriera centrale.
Fece una prova, lanciandole contro una manciata di sabbia. La sabbia raggiunse il muro e vi scomparve attraverso. Anche il guscio emisferico era un campo di forza. Ma opaco, non trasparente come la barriera. Lo percorse tutt’intorno, fino a quando non incontrò la barriera all’altra estremità, e ripercorse quest’ultima fino al punto di partenza.
Non c’era nessuna traccia di acqua.
In preda a una crescente preoccupazione, iniziò una serie di zig zag avanti e indietro fra la barriera e la parete emisferica, esaminando minuziosamente tutto lo spazio intermedio.
Non c’era acqua. Sabbia azzurra, cespugli azzurri e un calore intollerabile. Nient’altro.
Doveva essere la sua immaginazione, si disse rabbiosamente, quel suo soffrire troppo la sete. Da quanto tempo si trovava là? Naturalmente, da nessun tempo, secondo il suo riferimento spaziotemporale. L’Entità gli aveva detto che, là fuori, il tempo restava immobile, mentre lui era nell’arena. Ma i processi fisiologici del suo organismo continuavano lo stesso, mentre lui era là dentro. E dal punto di vista di queste sue funzioni, da quanto tempo era là? Tre o quattro ore, forse. Certo, non tanto tempo da soffrire a tal punto la sete.
Ma ne soffriva! Aveva la gola secca, riarsa. Probabilmente a causa dell’intenso calore. Era caldo! A occhio e croce, una cinquantina di gradi. Un calore asciutto, immobile, senza il più piccolo movimento d’aria.
Si scoprì a zoppicare sempre più malamente, ed era del tutto esausto, quando finì l’inutile esplorazione del suo dominio.
Occhieggiò, nell’altra metà, l’immobile Rotolante, e sperò che costui si sentisse stremato e avvilito quant’era lui. Era probabile che neppure l’alieno fosse troppo a suo agio. L’Entità non aveva detto, forse, che là dentro le condizioni erano scomode e inconsuete in modo equivalente per entrambi? Forse il Rotolante proveniva da un pianeta dov’era normale una temperatura d’una novantina di gradi. Forse adesso stava gelando, mentre lui arrostiva.
Forse l’aria era troppo densa per l’alieno, mentre era troppo sottile per lui… poiché lo sforzo di quella esplorazione lo aveva lasciato col fiato grosso. Ora si rese conto che, qui, l’atmosfera non era molto più densa di quella di Marte.
Niente acqua.
Ciò significava che il tempo a sua disposizione era strettamente limitato. A meno che non fosse riuscito, presto, a trovare un modo per attraversare la barriera, oppure di uccidere il nemico restando nella sua metà dell’arena, la sete non ci avrebbe messo molto a ucciderlo.
Ciò gli diede una sensazione di disperata urgenza. Doveva affrettarsi.
Ma si costrinse a sedersi un momento, per riposare, e pensare.
Cosa c’era da fare? Niente, eppure tantissime cose. Le diverse varietà dei cespugli, ad esempio. Non parevano promettenti, ma avrebbe dovuto esaminarli, per vedere se c’erano possibilità. E la sua gamba… avrebbe dovuto far qualcosa anche per quella, anche senza acqua per pulirla. Raccogliere pietre, da usare come munizioni. Trovare, fra esse, una pietra che potesse diventare un buon coltello.
Adesso la gamba gli faceva piuttosto male: decise, perciò, che doveva venire per prima. Un tipo di cespuglio aveva foglie, o comunque qualcosa che assomigliava alle foglie. Ne strappò una manciata e decise, dopo averle esaminate, di rischiare. Le usò per pulirsi via la sabbia, lo sporco e il sangue coagulato, poi fece un tampone di foglie fresche e lo legò sulla ferita servendosi dei viticci dello stesso cespuglio.
I viticci si dimostrarono inaspettatamente solidi e resistenti. Erano sottili e pieghevoli, eppure non riuscì a spezzarli: dovette staccarli dal cespuglio segandoli col bordo tagliente di un pezzo di selce azzurra. Alcuni dei più grossi erano lunghi una quarantina di centimetri, e archiviò nella mente, in vista di una utilizzazione futura, il fatto che un fascio di quelli grossi, legati insieme, avrebbe formato un’ottima corda. Avrebbe certo trovato il modo di utilizzare quella corda.
Poi si fabbricò un coltello. Le pietre azzurre si scheggiavano. Da un frammento lungo una quarantina di centimetri, si modellò un’arma rozza ma letale. E coi viticci del cespuglio si fece una cintura di corda nella quale infilare il coltello di pietra, per tenerlo con sé in ogni momento, ma sempre avendo le mani libere.
Tornò a studiare i cespugli. Ce n’erano di tre tipi. Uno era senza foglie, secco, friabile; il secondo di legno tenero, che si sbriciolava quasi fosse marcio. All’aspetto e al tocco sembrava un’ottima esca per il fuoco. Il terzo tipo era quello più simile al legno. Aveva foglie delicate, che appassivano al solo sfiorarle, ma gli steli, malgrado ciò, erano dritti e robusti.
Faceva caldo in un modo orribile, insopportabile.
Raggiunse zoppicando la barriera. La tastò, per garantirsi che fosse sempre là. C’era.
Restò a osservare il Rotolante per un po’. Si teneva a distanza di sicurezza dalla barriera, fuori portata dalle pietre che lui poteva scagliare. Laggiù, nel fondo dell’arena, si stava muovendo qua e là, intento a far qualcosa. Non riuscì a capire ciò che stesse facendo.
A un certo momento smise di muoversi, si avvicinò un poco alla barriera e parve concentrare la sua attenzione su di lui. Ancora una volta Carson dovette respingere un’ondata di nausea. Gli scagliò contro una pietra, e il Rotolante si ritirò, riprendendo la sua attività, qualunque cosa fosse ciò che stava facendo.