La prima cosa della quale divenne conscio fu l’interno della sua bocca, secco, incrostato. La lingua gli si era gonfiata.
Sapeva che c’era qualcosa di sbagliato, mentre ritornava a una relativa lucidità. Si sentiva meno stanco, lo stadio dell’esaurimento totale era passato. Il sonno vi aveva posto rimedio. Ma sentiva dolore, un dolore tormentoso. E soltanto quando tentò di muoversi, seppe che proveniva dalla sua gamba.
Sollevò la testa e la guardò. Si era terribilmente gonfiata sotto il ginocchio, e il gonfiore era risalito fino a metà coscia. I viticci che aveva usato per legarci sopra il tampone protettivo di foglie ora gli segavano profondamente la carne gonfia.
Spingere il suo coltello sotto il legaccio infossato sarebbe stato impossibile. Per fortuna, l’ultimo nodo si trovava appena sopra lo stinco, sul davanti, dove il viticcio segava la carne meno che altrove. Riuscì, con uno sforzo angoscioso, a disfare il nodo.
Un’occhiata sotto il tampone di foglie gli rivelò il peggio. Infezione e avvelenamento del sangue, entrambi assai sgradevoli e in via di peggioramento.
E senza medicinali, senza garze sterili, soprattutto senz’acqua, non c’era proprio niente che potesse fare.
Niente del tutto, se non morire, quando il veleno si fosse diffuso nel suo sistema circolatorio.
Allora, seppe che la situazione era senza speranza, e aveva perduto.
E con lui, l’umanità. Quando lui fosse morto qua dentro, là fuori, nell’universo che conosceva, tutti i suoi amici, l’intera sua razza, sarebbero morti anch’essi. E la Terra, i pianeti colonizzati, sarebbero divenuti la dimora dei rossi, sferici alieni, gli invasori. Creature uscite da un incubo, prive di sentimenti, che facevano a pezzi le lucertole soltanto per divertirsi.
Fu quel pensiero che gli diede il coraggio di mettersi a strisciare, senza veder quasi nulla per la sofferenza, verso la barriera, una volta ancora. Non avanzando sulle ginocchia, ma tirandosi avanti con i gomiti e le mani.
C’era una probabilità su un milione che, quando fosse giunto là, gli rimanesse ancora un po’ di forza per scagliare l’arpione una sola volta, e con effetto mortale, se — un’altra probabilità su un milione — il Rotolante si fosse avvicinato alla barriera. O se la barriera era scomparsa.
Gli sembrò d’impiegare anni per arrivare fin là.
La barriera non era scomparsa. Era insuperabile proprio come la prima volta che l’aveva toccata.
Il Rotolante non era alla barriera. Sollevandosi sui gomiti, Carson poté vederlo laggiù, in fondo all’arena, al lavoro su un’intelaiatura di legno che, sebbene completata a metà, appariva la copia esatta della catapulta che lui aveva distrutto.
Il Rotolante pareva muoversi anch’esso lentamente. Ovviamente, doveva anche lui essersi indebolito. Ma Carson pensò che ben difficilmente avrebbe avuto bisogno di quella seconda catapulta. Lui sarebbe morto assai prima, pensò, che il Rotolante l’avesse finita.
Se fosse riuscito ad attirarlo fino alla barriera adesso, mentre era ancora vivo… Agitò un braccio e cercò di gridare, ma la sua gola riarsa non riuscì a produrre alcun suono.
Oppure, se fosse riuscito ad attraversare la barriera…
Doveva aver perso per un attimo il lume della ragione, poiché si trovò a picchiare coi pugni contro la barriera, in un futile eccesso di rabbia. Si costrinse, con uno sforzo, a smettere.
Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi.
— Ehi, — disse una voce.
Era una voce piccola, sottile. Sembrava…
Aprì gli occhi e girò la testa. Era la lucertola.
«Vattene», avrebbe voluto dire Carson. «Vattene, tu non sei lì; o, se ci sei, non hai parlato. Sto di nuovo immaginandomi le cose».
Ma non riuscì a parlare; la sua gola e la sua lingua erano oltre la capacità di spiccar parola, aride e brucianti. Tornò a chiudere gli occhi.
— Ferita, — disse la piccola voce. — Uccidi. Ferita… uccidi. Vieni.
Aprì di nuovo gli occhi. La lucertola azzurra con dieci zampe era ancora lì. Corse avanti lungo la barriera, tornò indietro, corse ancora avanti, e tornò indietro.
— Ferita, — disse. — Uccidi. Vieni.
Ripartì un’altra volta di corsa, e tornò indietro. Voleva, era ovvio, che Carson la seguisse lungo la barriera.
Carson chiuse un’altra volta gli occhi. La voce continuò. Le stesse tre parole prive di senso. Tutte le volte che Carson apriva gli occhi, la lucertola correva avanti e tornava indietro.
— Ferita. Uccidi. Vieni.
Carson grugnì. Non gli avrebbe dato requie, a meno che non seguisse quel dannato animale. Questo, voleva la lucertola.
La segui, strisciando. Un altro suono, un acuto squittio, gli giunse alle orecchie e divenne più forte.
Qualcosa giaceva nella sabbia. Si contorceva e squittiva. Qualcosa di piccolo, azzurro, che sembrava una lucertola eppure non…
Poi, vide cos’era… la lucertola le cui zampe il Rotolante aveva strappato molto tempo prima. Ma non era morta, aveva ripreso i sensi e si dibatteva e urlava nell’agonia.
— Ferita, — disse l’altra lucertola. — Ferita. Uccidi. Uccidi.
Carson capì. Sfilò il coltello di pietra dalla cintura e uccise la creatura torturata. La lucertola viva schizzò via e scomparve.
Carson tornò a voltarsi verso la barriera. Vi appoggiò le mani e la testa e guardò il Rotolante che, laggiù, lontano, stava lavorando alla nuova catapulta.
— Se potessi arrivare fin laggiù… — sospirò. — Se soltanto riuscissi a passare! Potrei ancora vincere, se riuscissi a passare. Anche il Rotolante sembra debole. Potrei…
E poi fu travolto da un’altra ondata di nera disperazione, quando il dolore parve spezzare la sua volontà e fargli desiderare d’esser già morto. Invidiò la lucertola che aveva appena ammazzato. Non avrebbe più continuato a vivere, a soffrire. Mentre lui… Ci sarebbero volute ore, forse giorni, prima che l’avvelenamento del sangue lo uccidesse.
Se soltanto avesse trovato il coraggio di usare quel coltello su di sé…
Ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Fintanto che fosse rimasto in vita, c’era sempre quella possibilità su un milione…
Si era puntato contro la barriera coi palmi delle mani, e vide com’erano ridotte le sue braccia, d’una spaventosa magrezza. Doveva trovarsi lì da molto tempo, ormai, perché le sue braccia si fossero ridotte così scarne e sottili.
Quanto tempo, ancora, prima di morire. La sua carne, quanto calore, quanta sete, quanto dolore avrebbe potuto sopportare ancora?
Per un po’, fu in preda a una frenesia isterica, poi, tornò in lui la calma, e con essa un pensiero stupefacente.
La lucertola che aveva appena ucciso. Aveva attraversato la barriera, ancora viva. Era giunta fin lì dal lato dell’alieno; il Rotolante le aveva strappato le zampe, poi l’aveva scagliata contro di lui, in un gesto di disprezzo, e la lucertola aveva superato la barriera. Perché era morta, lui aveva pensato.
Ma non era morta. Era soltanto priva di sensi.
Una lucertola viva non poteva attraversare la barriera, ma una lucertola priva di sensi poteva farlo. Quella, allora, non era una barriera per la carne vivente, ma soltanto per la carne cosciente. Era una proiezione mentale, un ostacolo mentale.
Con questo pensiero in testa, Carson cominciò a strisciare lungo la barriera per compiere il suo ultimo, disperato tentativo. Una speranza così remota, che soltanto un uomo morente poteva osare di credervi.
Non serviva valutare le probabilità di successo. Non quando, se non avesse tentato, quelle probabilità sarebbero precipitate a zero.
Strisciò lungo la barriera fino al mucchio di sabbia, alto poco più d’un metro, che aveva scavato fuori nel tentativo — quanti giorni prima? — di trovare un passaggio sotto la barriera o di raggiungere l’acqua.