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Il mucchio era proprio accanto alla barriera; anzi la sabbia, assestandosi, l’aveva allargato alquanto alla base, così il pendio, su un lato, si trovava in parte al di là di essa.

Presa una pietra dal mucchio più vicino, Carson salì in cima al cumulo di sabbia, scese sull’altro Iato e si lasciò andare contro la barriera, con tutto il suo peso appoggiato su di essa, cosicché, se la barriera all’improvviso fosse scomparsa, sarebbe rotolato giù fin dentro al territorio nemico. Si accertò che il coltello fosse al suo posto, infilato nella cintura, e l’arpione nel cavo del suo braccio sinistro, la corda lunga sette metri legata ben salda al polso.

Poi, con la destra, sollevò la pietra con cui si sarebbe colpito alla tempia. Doveva essere un colpo fortunato: forte abbastanza da stordirlo, ma non troppo forte, per non stordirlo troppo a lungo.

Ebbe la sensazione che il Rotolante lo stesse osservando e che, vistolo precipitar giù attraverso la barriera, sarebbe venuto a indagare. Sperò che l’avrebbe creduto morto… che giungesse alla sua stessa, iniziale deduzione sulla natura della barriera. Ma sarebbe venuto avanti cautamente. Carson si augurò che ciò gli avrebbe dato il tempo di…

Si colpì.

Il dolore gli fece riprender conoscenza. Un improvviso, acuto dolore all’anca, ben diverso dal sordo pulsare della testa e dall’altro pulsare, ugualmente sordo, alla gamba.

Ma, prima di colpirsi, Carson aveva previsto quel dolore, si era caldamente augurato che ci fosse, e si era preparato a non reagire, svegliandosi, con un moto improvviso.

Giacque immobile, ma socchiuse cautamente gli occhi, e vide che la sua previsione era stata giusta: il Rotolante si stava avvicinando. Era a soli sei-sette metri di distanza, e il dolore che l’aveva destato era la pietra che l’alieno gli aveva scagliato addosso, per controllare se era vivo o morto.

Giacque immobile. Il Rotolante gli si avvicinò ancora di più. A cinque metri, tornò a fermarsi. Carson osava appena respirare.

Cercava di tenere sgombra la sua mente il più possibile, per timore che le facoltà telepatiche dell’alieno percepissero in lui una mente viva. E col cervello svuotato, l’impatto dei pensieri dell’altro quasi gli infranse l’anima.

Provò un puro orrore alla totale estraneità, alla diversità assoluta di quei pensieri. Percepì cose che non capì, e che non sarebbe mai stato capace di esprimere, poiché nessuna lingua e nessuna mente terrestri possedevano parole o immagini adatte. La mente di un ragno, pensò, oppure la mente di una mantide religiosa, o di un serpente marziano delle sabbie, rese intelligenti e poste in contatto telepatico con la mente umana, sarebbero apparse, al confronto di questa, familiari, consuete, amiche.

Ora capì che l’Entità aveva avuto ragione: uomo o Rotolante, l’universo non avrebbe potuto contenerli entrambi. Più distanti di Dio e il diavolo, un accordo fra loro, un equilibrio, sarebbero stati sempre impossibili. Ancora più vicino… Carson attese fino a quando l’alieno fu a un solo metro di distanza, e i suoi tentacoli artigliati si allungarono…

Dimentico, adesso, della lancinante sofferenza, balzò a sedere, sollevò e scagliò l’arpione con tutta la forza che ancora gli restava. O quanto meno, si convinse di aver messo in quel gesto disperato tutta la residua energia del suo corpo, poiché gli parve che una forza immensa l’avesse rianimato all’improvviso, bloccando, nel medesimo istante, ogni dolore.

E il Rotolante, l’arpione profondamente conficcato nel corpo, ruzzolò via. Carson cercò di alzarsi in piedi per inseguirlo, ma non vi riuscì; cadde, ma continuò a strisciare.

La corda si srotolò del tutto, poi Carson fu violentemente strappato in avanti per il polso. Il Rotolante lo trascinò per qualche metro, poi si fermò. Carson, abbrancando la corda con una mano dopo l’altra, continuò inesorabilmente ad avvicinarsi al nemico.

Il Rotolante tentava disperatamente, contorcendo i tentacoli, di strapparsi dal corpo l’arpione. Vibrò e oscillò, frenetico, poi dovette rendersi conto che non sarebbe riuscito a fuggire, poiché balzò addosso a Carson con tutti gli artigli protesi.

Carson impugnò il coltello di pietra e l’affrontò. Glielo piantò in corpo una volta, e un’altra, e un’altra ancora. E continuò implacabile, mentre quegli orribili artigli strappavano brandelli di pelle e di carne dal suo corpo.

Lacerò, squarciò, tranciò, e alla fine il Rotolante non si mosse più.

Un campanello squillava, e gli ci volle un po’, quand’ebbe aperto gli occhi, per poter dire dov’era, e chi era. Era seduto al quadro dei comandi del suo ricognitore, legato con la cinghia, e la piastra video davanti a lui mostrava soltanto lo spazio vuoto. Nessuna nave aliena. Nessun pianeta impossibile.

Il campanello era un segnale di chiamata; qualcuno gli stava chiedendo di staccare il ricevitore. Per puro istinto allungò la mano e fece scattare l’interruttore.

Il volto di Brander, comandante della Magellano, la nave-base del suo gruppo di ricognitori, comparve sullo schermo. Era pallido, e gli occhi neri ardevano di eccitazione.

— Magellano a Carson, — esclamò. — Rientra. La guerra è finita. Abbiamo vinto!

La piastra video si spense; Brander stava trasmettendo agli altri ricognitori il suo ordine.

Lentamente, Carson regolò i comandi per la rotta di rientro. Lentamente, incredulo, sganciò la cinghia di sicurezza e andò a servirsi da bere al serbatoio dell’acqua ghiacciata. Per qualche motivo, aveva una sete tremenda. Ne trangugiò sei bicchieri.

Si appoggiò alla paratia, cercando di metter ordine nella sua mente.

Era accaduto davvero? Lui si sentiva a posto, incolume. La sua sete era stata più mentale che fisica, la sua gola non era secca. La sua gamba… Si tirò su il calzone e si guardò il polpaccio. E vide una lunga linea bianca. Una cicatrice, perfettamente rimarginata. Prima, non c’era. Si apri la chiusura-lampo sul davanti della tuta e vide che il suo petto e l’addome erano costellati da tante, minuscole cicatrici, quasi invisibili, perfettamente rimarginate.

Sì, era accaduto.

Il ricognitore, grazie all’automatico, si stava già infilando entro l’ampio boccaporto della nave-madre. Gli agganci magnetici lo tirarono dentro al suo hangar, e pochi istanti più tardi un cicalino indicò che l’hangar era pieno d’aria.

Carson aprì il portello e uscì fuori, attraverso la camera d’equilibrio, e si diresse subito all’ufficio di Brander, entrò e salutò.

Brander aveva ancora un’aria confusa e stordita. — Ciao, Carson, — esclamò. — Cosa ti sei perso! Che spettacolo!

— Cos’è successo, signore?

— Non lo so, esattamente non riesco a spiegarmelo. Abbiamo sparato una salva… e tutta la loro flotta è finita in polvere! È stato come… come un lampo, è balzato da una nave all’altra, facendo esplodere anche quelle a cui non avevamo sparato, anche quelle che erano fuori portata! L’intera flotta aliena si è disintegrata davanti ai nostri occhi, e noi… nessuna delle nostre navi ha subito il minimo danno, neanche una graffiatura alla vernice!

«E non possiamo neppure accreditarcene il merito. Dev’essere stata qualche instabilità nella struttura del metallo che usavano, attivata dalla nostra prima salva. Oh, amico, amico mio, è davvero un peccato che ti sia perso la festa.

Carson riuscì a sorridere, anche se era soltanto il fantasma malato di un sorriso, poiché ci avrebbe messo giorni prima di riaversi dal trauma mentale della sua esperienza, ma il comandante non lo stava guardando e non lo notò.

— Sì, signore, — disse. Il buonsenso, ben più che la modestia, gli stava dicendo che sarebbe stato bollato per sempre come il peggior bugiardo dello spazio, se avesse detto anche una sola parola di più. — Sì, signore, davvero un peccato che mi sia persa la festa.