«Capisco cosa volete dire» rispose. «Ma credo che vadano bene in Florida, in gennaio.»
«Non andiamo al Capo.»
«Perché no?»
«Troppi cronisti, troppa gente. Così andiamo in una base dell’aeronautica nel Nord Dakota.»
«Capisco» disse Jerome, chiedendosi se sarebbe stato difficile per i dorriniani raggiungerlo in quella località. «Avreste potuto scegliere un posto più caldo.»
«Credevo che voi russi foste abituati al freddo» replicò Simm con un sorriso malevolo.
Jerome non disse altro, deciso a parlare il meno possibile per il resto della discesa. Prima di quanto avesse previsto, la navetta si tuffò negli strati superiori dell’atmosfera e il cielo visibile attraverso gli oblò diventò azzurro. Nel giro di dieci minuti l’attrito dell’aria sullo scafo diventò percettibile e la navetta, mutando le caratteristiche di missile balistico in quelle di aeroplano, cominciò a rivelare un carattere meccanico suo proprio che espresse a tratti con sbalzi improvvisi, sussulti e colpi di coda.
A quanto Jerome poté giudicare da quel po’ che riusciva a vedere di sfuggita, gran parte del Canada centrale e degli USA erano coperti da una coltre di nubi. La prospettiva di una discesa in picchiata in condizioni atmosferiche avverse lo indusse a stringere l’imbracatura di sicurezza, e mentre affibbiava le cinghie si accorse che le sue braccia pesavano come piombo. Cercò di non pensare ai problemi che gli avrebbe causato la gravità terrestre, sperando di esser stato eccessivamente pessimista circa la sua capacità di compensazione, ma il senso di peso era uno sgradevole assaggio di quello che lo aspettava di li a poco.
Sentendo che i muscoli del collo protestavano per il sovrappiù di tensione, chinò la testa in avanti e rimase sbigottito quando il mento urtò la clavicola con un impatto che gli fece battere i denti. Rialzò la testa con uno sforzo, con la sensazione di portare un elmo di piombo, e si accorse che Simm lo guardava seriamente preoccupato.
«Ehi, state bene?» gli chiese scrutandolo. «Avete bisogno di un dottore?»
«Troppo a lungo in assenza di gravità» mormorò Jerome, tentando di adattarsi alla scoperta che tre mesi senza peso avevano seriamente indebolito la sua muscolatura dorriniana già inadeguata di per sé. «Non so neanche se riuscirò a camminare.»
«Basta che riusciate a parlare.» Simm si voltò a guardare le nuvole in cui si tuffava la navetta.
Jerome lo mandò al diavolo e si concentrò nello sforzo di tener dritto il collo e la testa eretta, mentre da azzurro il tratto di cielo visibile attraverso gli oblò diventava grigio e la discesa si faceva tempestosa. Tutte le sensazioni di movimento venivano acuite dalla sua debolezza, e il volo si trasformò per lui in un seguito di cadute, contorcimenti e sussulti che gli fecero dubitare della capacità del pilota di mantenere il controllo. Nella realtà il suo ritorno a casa era ben diverso dalle nostalgiche visioni che lo avevano consolato durante le lunghe notti nel Recinto. Minacciato da pericoli naturali, debole come un invalido, era stato gettato in una buia arena dove si celavano ombre e un superman terrificante e maligno voleva la sua morte. Belzor era un essere che uccideva senza esitare chi ostacolava le sue iniziative, e, finché portava il Thrabben, Jerome personificava la condanna a morte di Belzor…
Sentendosi solo e vulnerabile, Jerome chiuse a pugno la destra sulla mano che portava l’anello, mentre la navetta usciva dalla coltre di nubi. Ebbe rapide visioni di distese nevose che si perdevano nel grigiore, di strade appena distinguibili che portavano dal nulla al nulla… La Terra non gli dava il benvenuto. I turboreattori di coda si accesero nell’ultima parte del volo, aggiungendosi alle forze che già squassavano il corpo di Jerome, strappandogli la testa all’indietro a ogni colpo. Qualche minuto dopo penetrò dall’esterno un confuso insieme di luci, seguì un attimo di silenzio, e infine la navetta si posò solidamente sul cemento. Jerome sedeva immobile, e solo dopo che la navetta si fu fermata voltò cautamente la testa verso Simm.
«Adesso che siamo arrivati» disse, «chiedo di essere portato all’ambasciata sovietica, a Washington.»
«Certo, certo» rispose giovialmente Simm, alzandosi in piedi e facendo crocchiare le dita mentre chiamava con un cenno i due giovani. «Uno di voi due dovrà fare a meno del cappotto» disse. «Non possiamo rischiare che il nostro ospite si becchi un raffreddore.»
Jerome, che non vedeva l’ora di saggiare fino a che punto era debole, sfibbiò le cinghie e si alzò a fatica. Tirò un sospiro di sollievo nel constatare che poteva reggersi da solo, a parte una certa fiacchezza alle ginocchia, e questo dimostrava come gli fossero stati utili gli esercizi agli attrezzi sulla Quicksilver. Purtroppo non aveva pensato a esercitare anche i muscoli del collo, ma almeno poteva risparmiarsi l’umiliazione di essere sbarcato a braccia. Si avviò lungo la corsia centrale con la sensazione di avere un quintale di sacchi di sabbia sulle spalle e con le gambe malferme, seguito passo passo da Simm.
Uno dei due scagnozzi lo aiutò a indossare un cappotto che aveva tolto da un armadietto. Mentre lo abbottonava, Jerome vide che nella parte anteriore della navetta l’equipaggio in divisa stava dandosi da fare per aprire il portello stagno. Pochi attimi dopo si udì un leggero tonfo, il massiccio portello si socchiuse con uno scatto per poi spalancarsi del tutto, e refoli di aria fredda invasero il caldo abitacolo.
«Andiamo slunghignone» disse Simm. Gli passò davanti e lo precedette sulla scaletta di metallo che qualcuno aveva piazzato sotto la navetta. Il cielo pomeridiano era plumbeo, con solo qualche piccola chiazza di luci ambrate sull’orizzonte che indicavano gli edifici del campo d’aviazione. La navetta era atterrata su una pista isolata a un lato della quale c’era uno spiazzo con autopompe, autogru e due limousines nere coi finestrini oscurati. Jerome aveva fatto appena in tempo a guardarsi intorno, quando il freddo lo colpì come un assassino in agguato. Rimase senza fiato per lo shock perché non ricordava di aver mai patito tanto freddo nemmeno negli inverni più rigidi… ma poi si rese conto che fisicamente non aveva mai sentito il freddo. Il corpo dorriniano che aveva ereditato, oltreché fragile, era nato e vissuto nel caldo invariabile di Cuthranel. Scosso da un violento tremito, scese barcollando la scaletta e trattenne a stento un urlo quando il piede coperto dalla sola calza venne a contatto con la neve della pista.
Gli equipaggi dei veicoli vicini erano rimasti ai loro posti, ma lui sapeva che lo stavano guardando, e con un ultimo sussulto di orgoglio si costrinse a star ritto e a celare l’angoscia.
Non c’è bisogno che Belzor si dia da fare, pensò. Basterà il freddo a uccidermi.
«Bene, state a sentire» disse Simm a i due scagnozzi. «Io salirò nella mia auto col mio amico, e voi mi seguirete con l’altra fino al Boeing. Restate a terra e tenete gli occhi ben aperti finché non saremo pronti per il decollo, poi salite a bordo anche voi. E per l’amor di Dio, non avere quell’aria infelice, Dougan» aggiunse dando una pacca sulla spalla del giovane che aveva ceduto il cappotto a Jerome. «Te lo farò restituire in perfette condizioni. D’accordo? E adesso andiamo.»
Simm prese Jerome per un braccio e lo spinse verso la limousine più vicina.
Lo strattone irritò Jerome, ma era troppo debole per liberarsi dalla stretta. Intirizzito e reggendosi a malapena si lasciò trascinare, e quando furono vicini alla macchina qualcuno aprì uno sportello posteriore in modo che Simm poté più facilmente spingere Jerome sul sedile. Poi salì a sua volta e si sedette di fronte a lui su uno strapuntino.
La limousine partì immediatamente. Il conducente era invisibile al di là del vetro divisorio oscurato.
Il compagno di Simm, che aveva abbassato lo strapuntino, era un uomo snello, sulla quarantina, col naso affilato, vestito in modo anonimo.