«Capisco. E poi?»
«Sono andata in cucina a preparare il caffè, e ci sono rimasta una decina di minuti, in attesa che filtrasse.»
«Capisco» ripeté Jerome. Nonostante l’istintivo desiderio di evitare di approfondire la conoscenza con la vittima, cominciava a vedere il morto come una persona che aveva avuto un suo carattere e le sue abitudini. Sarebbe stato molto meglio che Art Starzynski potesse restare il Soggetto X, ma la stanza in cui era morto in maniera così strana e inesplicabile insisteva a essere collegata con la sua identità. Ovunque Jerome guardasse, c’erano mute testimonianze che Starzynski era stato un uomo, non un caso nelle statistiche di una compagnia di assicurazioni. C’erano alcuni fossili privi di valore che stavano lì solo perché lui aveva preferito conservarli, c’era un catalogo di sementi, c’erano alcuni certificati chiusi in cornice che attestavano la sua efficienza nel pronto soccorso, e poi diversi barattoli di tabacco, una scatoletta di pastiglie di caucciù, viola, a forma di cuore, vecchi binocoli militari, monete straniere. Una persona in carne ed ossa aveva passato buona parte della sua vita in quella stanza, e l’evidenza suggeriva che quella vita si era conclusa in modo singolare.
«… mentre preparavo il caffè ho cominciato a sentire un leggero odore di bruciato» stava dicendo Maeve. «Pesante e nauseabondo, un po’ come quello dell’incenso. Passando in anticamera ho notato alcune volute di fumo azzurrino, e quando ho aperto la porta, questa stanza ne era piena. Sulle prime non riuscivo a distinguere niente, poi ho notato quel buco vicino al televisore. Non c’erano fiamme, solo il buco nel pavimento, e…»
Jerome tornò a guardare la boccia di vetro fiorita all’interno come un minuscolo universo a sé stante. Si vergognava ma era ansioso di sentire quello che lei stava per dire.
Maeve trasse un profondo respiro, e quando riprese a parlare, lo fece con voce pacata, indifferente, come se si trattasse di una cosa che non la toccava. «Tutto quel che restava di mio padre era un mucchietto di ceneri impalpabili. Non avrei mai supposto che erano i suoi resti, se non avessi inciampato nella sua mano sinistra, l’unica parte del suo corpo che non era bruciata. Si trovava qui sul pavimento, vicino al buco.»
Jerome rabbrividì, un po’ a causa di quello che aveva sentito, ma soprattutto perché si era reso conto che qualcosa era cambiato dentro di lui. A un certo punto della storia di Maeve Starzynski aveva cominciato ad accettare come vero tutto quello che lei diceva, e questo significava che c’era qualcosa di sbagliato nel suo personale modo di vedere l’universo. Da bambino quando cominciava a imparare l’aritmetica, Jerome si era stupito di come l’intero sistema numerico fosse in armonia. Per quanto aggiungesse, moltiplicasse o sottraesse, tutto quadrava sempre e questo sembrava troppo facile per essere vero per la sua mentalità infantile. Aveva passato molte ore del suo tempo libero a elaborare calcoli tortuosi ideati apposta per indurre il sistema numerico a rivelare le sue manchevolezze, finché non aveva dovuto darsi per vinto, anche se con riluttanza. Adesso, inaspettatamente, dopo tanti anni, aveva l’impressione di aver trovato il difetto, il punto nascosto in cui i numeri si rifiutavano di fare il loro dovere. Scrutò Maeve e vide che aveva una faccia pallida e tirata.
«Non ho ancora finito il tè» disse. «Vogliamo tornare in cucina?»
Maeve annuì e uscirono dal salotto. In cucina lei afferrò la sua tazza con ambo le mani e bevve qualche sorso con gli occhi fissi sul cortile. Un orologio elettrico a muro mandava un lieve fruscio.
Finito di bere, Jerome depose la tazza. «Ho ancora una domanda, ma se preferite non…»
«No, no, dite pure.»
«Dov’è il televisore?»
«Oh, quello! La polizia l’ha portato via per esaminarlo. Un agente, non ricordo come si chiama, deve avermi chiesto almeno una dozzina di volte se era acceso quando sono entrata. Pareva contrariato» aggiunse con un pallido sorriso, quando ho insistito a dirgli che era spento.
«Di solito l’elettricità spiega tutto.»
«Ma non in questo caso.»
«No» ammise Jerome, che stava tentando, senza successo, di trovare una spiegazione a quanto era accaduto ad Art Starzynski, e che adesso si sentiva invadere la mente da quel bizzarro mistero come da un esercito furtivo. Era una sensazione curiosa, gradevole e stranamente familiare, e poi si rese conto che per la prima volta, anche se per pochi istanti, non aveva pensato a Carla da quando era morta. E la causa era stata la sfida intellettuale, lo stimolo che aveva sempre provato quando si misurava con un problema allettante di logica pura o applicata. Per un attimo si paragonò all’equivalente emotivo di un vampiro che si nutriva dei dolori altrui, e dovette reprimere un lieve senso di colpa. Rivolse a Maeve quello che si augurò fosse un sorriso rassicurante.
«Deve per forza esserci una spiegazione a quello che è successo a vostro padre» disse. «Farò del mio meglio per trovarla.»
2
L’obitorio era un edificio basso, in mattoni rossi, situato discretamente sul retro del Whiteford Holy Cross Hospital. Le pareti esterne erano prive di finestre e l’ingresso era costituito da un’anonima porta di acciaio. Era quel tipo di edificio che passa inosservato, e tuttavia la sua vista provocò in Jerome un senso di disagio.
Uscendo dalla casa degli Starzynski, il suo primo impulso era stato di tornare in ufficio e leggere tutto quanto era disponibile sulla combustione umana spontanea, ma aveva cambiato idea spinto da motivi filosofici. Se avesse seguito quell’impulso si sarebbe trovato a che fare solo con parole, parole scritte da altri, estranee al fenomeno su cui si era proposto di indagare, cosa che non andava d’accordo col metodo scientifico. Inoltre voleva dimostrare ad Anne Kruger che sarebbe stata una buona cosa lasciarlo libero di agire di sua iniziativa. Con una telefonata all’ospedale aveva ottenuto un appuntamento col dottore McGrath, disposto a riceverlo subito, e mentre percorreva in auto le strade della città nella luce cristallina di quella bella giornata del New Hampshire, si era sentito soddisfatto di se stesso.
Però adesso, avvicinandosi a piedi all’obitorio, gli tornò alla mente che era restio per istinto a entrare in un posto dove venivano conservati i cadaveri. In particolare non aveva la minima voglia di guardare da vicino una mano umana carbonizzata, e i motivi che l’avevano spinto a desiderare di farlo parevano completamente svaniti. Suonò il campanello e poco dopo la porta di acciaio fu aperta da un uomo alto e brizzolato con l’aspetto emaciato di uno che una volta era stato grasso e adesso era magro.
Camicia e calzoni che gli pendevano di dosso rafforzavano quell’impressione. Aveva un viso lungo, segnato da profonde rughe e guardò Jerome con occhi tristi e innocenti.
«Entrate» disse. «Dentro fa più fresco.»
Jerome si schiarì la gola. «Siete il dottor McGrath? Sono Rayner Jerome.»
«Lo immaginavo» e aggiunse non senza umorismo: «Non riceviamo molte visite, qui.»
«Eh, lo credo.» Rassicurato dall’atteggiamento del medico, Jerome lo seguì lungo un breve corridoio dopo averlo aspettato mentre chiudeva il portone. All’interno l’aria era fresca e inodore.
«Dunque siete un corrispondente scientifico» disse il dottor McGrath mentre entravano in un modesto ufficio illuminato a giorno. «Non sapevo che l’Examiner impiegasse animali di questa specie.»
«Be’, non lo sanno nemmeno loro. Sono io che cerco di pilotarli in quella direzione.»