«Grazie.» Jerome si alzò a fatica e guardò l’orologio inserito in un pannello. Erano le 14.08.
Nordenskjöld gli porse una tuta imbottita e Jerome rabbrividì al pensiero che stava per avventurarsi nel freddo polare. «Prima di infilarmela potrei avere un altro brandy?»
«Naturalmente.» Nordenskjöld andò al mobile bar e tornò con un bicchiere di brandy. Jerome, che aveva bevuto raramente alcolici anche nella prima parte della sua vita, aveva chiesto di bere qualcosa di forte, senza pensarci, appena erano partiti, nella speranza di trovare un po’ di conforto nel calore del brandy, ma i suoi sensi dorriniani si erano ribellati al sapore. Questa volta la reazione fu meno forte e riuscì a ingollare tre lunghe sorsate prima che lo stomaco tentasse di ribellarsi.
Restituì il bicchiere, grato per il calore che sentiva diffondersi in lui, e s’infilò non senza fatica la tuta.
«Sentite, devo partecipare a una spedizione?» chiese, mentre un altro gli porgeva un paio di stivali termici con la suola spessa.
«Dovrete percorrere solo un breve tratto da un veicolo che vi trasporterà fin là, all’ingresso della Criocupola, ma la temperatura è di meno trenta» disse Nordenskjöld. «E all’interno della cupola è pressappoco uguale.»
«Capisco» rispose Jerome che non vedeva l’ora di farla finita con tutto ciò che era freddo e disumano, alieno e innaturale. «E cosa succederà quando entrerò la dentro? Dovrò vedere migliaia di cadaveri?»
«Non posso parlare di questo.»
«Ma io sono il Portatore del Thrabben.»
«Non un Guardiano.»
«Be’, qualunque cosa succederà, spero che avvenga presto. Non vedo l’ora di farla finita.» Come se ubbidisse al suo desiderio, si accese il segnale di atterraggio. Un fruscio attutito accompagnato da una serie di leggeri sobbalzi rivelò che l’aereo aveva spiegato tutto il suo piumaggio di metallo apprestandosi a toccar terra.
Jerome guardò fuori dal finestrino ed ebbe un’impressione di deja vu poiché la scena era identica a quella del Nord Dakota: il mondo pareva fatto di immacolate distese di neve, raggelate in un eterno crepuscolo. Un minuto dopo l’aereo atterrò su una pista metallica riscaldata e si fermò con un rombo delle turbine.
Nordenskjöld e gli altri rimasero immobili ai loro posti finché tornò il silenzio e le luci di avvertimento non si spensero.
Perché affrettarsi all’ultimo momento dopo un’attesa di tremilacinquecento anni? pensò Jerome.
Cercò di immaginare cosa stesse passando per la mente dei dorriniani, che si erano alzati e si davano da fare in silenzio infilando i guanti, raccogliendo gli oggetti personali, comportandosi insomma come pendolari alla fine di un viaggio di routine. Per quanto tentasse non vi riuscì; solo un cristiano convinto dell’approssimarsi del Secondo Avvento avrebbe forse potuto intuire cosa significavano quei minuti per quegli uomini e quelle donne che avevano compiuto il terrificante balzo mentale fra due mondi, spinti da un sogno.
Jerome capì che doveva condividere quel reverente silenzio e si avviò insieme agli altri verso il portello.
Si soffermò sulla soglia vacillando.
Il riposo durante le lunghe ore del volo non era servito a migliorare le sue condizioni fisiche. Faticava a tenere ritta la testa e gli si piegavano le ginocchia come se portasse sulle spalle un grosso peso.
Respirava pesantemente, ma quando Nordenskjöld fece per aiutarlo, imitato da qualcun altro, rifiutò dicendo: «No, no, lasciate, ce la faccio da solo.»
«Capisco» dichiarò Nordenskjöld annuendo gravemente. «È anche meglio per noi che il Portatore del Thrabben faccia un arrivo dignitoso.»
Trattenendo il respiro per attenuare il dolore che l’aria gelida gli infliggeva alle narici, Jerome scese lentamente la scaletta e si fermò a guardare la più vicina motoslitta in attesa poco lontano; quando gli parve di essersi un po’ riposato vi si diresse. Cercò di salire a bordo senza aiuto ma le gambe si rifiutarono di sollevare all’altezza del gradino il peso del corpo appesantito dall’implacabile attrazione di gravità della Terra. Gli altri, che a lui sembrarono dotati di forza erculea, lo sollevarono e lo deposero sul sedile. Soltanto Nordenskjöld salì a bordo con lui.
Aspettarono finché gli altri non ebbero preso posto nei restanti veicoli e poi il piccolo convoglio si mise in moto.
Il tetro paesaggio circostante non contribuiva certo a sollevare lo spirito di Jerome che, isolato nel suo bozzolo di cupi pensieri, non si accorse quando il veicolo oltrepassò i cancelli di una recinzione di filo spinato, e solo quando si fermò strisciando sulla neve davanti a una cupola bassa larga un centinaio di metri, fu di nuovo consapevole della realtà circostante.
Il cuore cominciò a battergli all’impazzata quando capì che stava per scoccare il momento fatale, il momento in cui le storie di due mondi si sarebbero fuse… con risultati incalcolabili.
I Quattromila stavano per essere risvegliati dal loro sonno millenario.
«Non possiamo avvicinarci di più all’ingresso» disse Nordenskjöld strappandolo alle sue elucubrazioni. «Credete di riuscire a camminare fin là?»
Jerome guardò la scalinata a ventaglio che saliva fino all’entrata della cupola. I gradini bassi e molto larghi, si curvavano a seguire il perimetro dell’edificio e salivano tra frangivento di granito e mucchi di neve spazzata. Quello era il posto dove il dorriniano che lui aveva visto morire su Mercurio avrebbe dovuto camminare maestoso e trionfante come Portatore del Thrabben, ma il fato aveva deciso che Rayner Jerome ne prendesse il posto.
«Ce la farò» disse Jerome. «Solo, mettetemi in piedi.»
Aspettò senza muoversi, non osando scendere da solo finché Nordenskjöld non fu sceso a sua volta. Il dorriniano lo aiutò e poi si fece in disparte, pallido e teso mentre Jerome, dopo aver barcollato un poco, cominciava la faticosa salita verso l’entrata buia della cupola. Raggiunto il primo gradino, riuscì a sollevare senza gran difficoltà il piede destro, e dopo essersi chinato in avanti e aver chiamato a raccolta tutte le sue forze, riuscì ad issare anche il resto del corpo.
Il piede sinistro strisciò a raggiungere l’altro, e lui pensò: Non è stato molto difficile. Ne mancano solo sette.
Ma proprio allora si verificarono due eventi inattesi.
Alle sue spalle, Nordenskjöld emise un grido d’angoscia; e davanti a lui, a destra della scala, un mucchio di neve si aprì rivelando la figura di un uomo armato di fucile.
Jerome trattenne il fiato paralizzato da quell’apparizione. L’uomo sollevò la mano libera e abbassò lentamente il cappuccio della giacca a vento mettendo a nudo la faccia, che parve stranamente nota a Jerome. Quando poi la riconobbe, non riuscì a trattenere un gemito.
Seguì un silenzio carico di tensione, poi l’uomo disse: «Proprio così, Rayner… contro tutte le probabilità, torniamo a incontrarci.»
Se ci fosse riuscito, Jerome sarebbe scappato di corsa obbedendo all’istinto, ma era paralizzato dall’orrore, e non riusciva a distogliere gli occhi da quella faccia che un tempo era stata la sua.
Mi hanno mentito, pensò, confuso. Mi hanno mentito perché sapevano che non avrei potuto affrontare una cosa simile.
«No, non hanno mentito» disse Belzor. «Quei pazzi erano riusciti a farmela… credevano di esserci riusciti, e la prova della loro incompetenza è che sono ancora vivo.»
Jerome tentò di arretrare, ma le gambe si rifiutarono di muoversi e tutto quello che ottenne fu un lungo brivido.
«Non puoi muoverti, Rayner» disse Belzor. «Non ti muoverai finché non avrai saputo quello che devi sapere, tutto quello che i tuoi amici non ti hanno detto.»