«Se preferisce» disse Theo.
Lei lo guardò come se si fosse aspettata una maggiore insistenza; la sua disponibilità ad aspettare sembrò dissolvere i timori della donna. «E va bene,» disse «venga su. Ma devo avvisarla: Moot è molto riservato da quel… da quando è successa quella cosa, ieri, qualunque cosa fosse. E stanotte non ha dormito bene, perciò è un po’ nervoso.»
Theo annuì. «Capisco.»
Lo lasciò entrare. Era una casa luminosa, ariosa, con una straordinaria vista sul lago Lemano; Helmut senior, a quanto sembrava, vendeva un bel po’ di scarpe.
La scala consisteva di gradini orizzontali di legno, senza sostegni verticali. Frau Drescher si diresse verso la base della scala e chiamò: «Moot! Moot! C’è qualcuno che vuole vederti!» Poi tornò a rivolgersi a Theo. «Non vuole sedersi?»
Indicò con un gesto della mano una bassa poltrona di legno con i cuscini bianchi, affiancata da un divano dello stesso tipo. Theo si accomodò. La donna tornò ai piedi delle scale, ora alle spalle di Theo, e gridò di nuovo: «Moot! Vieni giù. C’è una persona che vuole parlare con te.» Tornò di fronte a Theo e alzò le spalle in un gesto di scusa, come a dire ‘più di questo una mamma non può fare’.
Finalmente si sentì il suono di un passo leggero sui gradini di legno. Il ragazzo scese rapidamente; magari non aveva troppa voglia di rispondere all’appello di sua madre, ma, come tutti i bambini, le scale le scendeva sempre di corsa.
«Ah, Moot,» disse sua madre «questo è il signor Proco…»
Theo si era voltato per osservare il ragazzo da sopra la spalla. Nel momento in cui Moot vide Theo, si mise a strillare e corse subito su, così rapido che la struttura aperta della scala vibrò visibilmente.
«Cosa c’è che non va?» gli gridò dietro sua madre.
Quando raggiunse il piano superiore, il ragazzo richiuse una porta sbattendola dietro di sé.
«Sono mortificata» disse frau Drescher, rivolgendosi a Theo. «Non capisco che cosa gli sia preso.»
Theo chiuse gli occhi. «Io sì, credo» replicò. «Non le ho raccontato tutto, frau Drescher. Io… fra ventuno anni io sarò morto. E suo figlio, Helmut Drescher, sarà un investigatore della polizia di Ginevra. Sarà lui a svolgere le indagini sul mio omicidio.»
Frau Drescher divenne pallida come il manto nevoso del Monte Bianco. «Mein Gott» esclamò. «Mein Gott.»
«Lei deve lasciarmi parlare con Moot» disse Theo. «Lui mi ha riconosciuto… il che significa che la sua visione deve avere qualcosa a che fare con me.»
«Ma è appena un bambino.»
«Lo so… però ha delle informazioni sul mio omicidio. Ho bisogno di conoscere ciò che sa.»
«Un bambino non può capire niente di tutto questo.»
«La prego, frau Drescher. La prego… è della mia vita, che stiamo parlando.»
«Non direbbe niente di questa… di questa visione» ribatté la donna. «Evidentemente lo ha spaventato, non ne parlerebbe.»
«Per favore, devo sapere ciò che ha visto.»
Lei ci pensò per qualche secondo poi, quasi tenendo a freno il buon senso, disse: «Venga con me.»
Si avviò verso la scala. Theo la seguì, qualche gradino più indietro. Al piano superiore c’erano quattro stanze: un bagno, con la porta aperta, due camere da letto, anch’esse con le porte aperte, e una quarta stanza con un poster del primo Rocky fissato col nastro adesivo sulla porta chiusa. Frau Drescher indicò a Theo di fare qualche passo indietro lungo il corridoio. Lui lo fece, e la donna bussò leggermente alla porta.
«Moot! Moot, sono mamma. Posso entrare?»
Nessuna risposta.
Lei allungò la mano verso la maniglia color ottone e la girò lentamente, poi socchiuse appena la porta. «Moot?»
Una voce soffocata, come se il ragazzo fosse sdraiato a faccia in giù sul cuscino: «Quell’uomo è ancora qui?»
«Non entrerà, te lo prometto.» Una pausa. «L’hai visto da qualche parte?»
«Ho visto quella faccia. Quel mento.»
«Dove?»
«In una stanza. Era sdraiato su un letto.» Un’altra pausa. «Solo che non era un letto; era fatto di metallo. E c’era una cosa sopra, una specie di piastra, come quella dove servi l’arrosto.»
«Un vassoio?» chiese frau Drescher.
«Aveva gli occhi chiusi, ma era lui, e…»
«E che cosa?»
Silenzio.
«Puoi dirlo, Moot. Puoi dirlo a mamma.»
«Non aveva la camicia, e nemmeno i pantaloni. E c’era quel tizio con il camice bianco, come quelli che ci mettiamo quando facciamo lezione di arte. Però aveva un coltello, e stava…»
Theo, in piedi nel corridoio, trattenne il fiato.
«Aveva una specie di coltello, e stava… stava…»
Mi stava sezionando, pensò Theo. Un’autopsia, con l’investigatore che osservava mentre il medico legale la eseguiva.
«Era così brutto» disse il ragazzo.
Theo mosse piano qualche passo in avanti, fermandosi sulla soglia dietro frau Drescher. Il ragazzo era proprio sdraiato sul letto a pancia in giù.
«Moot…» disse Theo, con un filo di voce. «Moot, mi dispiace che tu abbia visto tutto questo, ma… io devo sapere. Devo sapere cosa stava dicendo quell’uomo.»
«Non voglio parlarne» disse Moot.
«Lo so… lo so. Ma per me è molto importante. Ti prego, Moot. Ti scongiuro. Quell’uomo con il camice bianco, lui era un dottore. Per favore, raccontami quello che stava dicendo.»
«Devo farlo?» chiese il ragazzo alla madre.
Theo riuscì a leggere sul volto della donna il conflitto fra emozioni contrastanti. Da una parte voleva proteggere suo figlio da una situazione sgradevole; dall’altra c’era però qualcosa di più importante che la teneva in una condizione di stallo. Alla fine rispose: «No, non devi… ma sarebbe molto utile.» Attraversò la stanza, sedette sul bordo del letto e accarezzò i capelli biondi e corti del figlio. «Vedi, il signor Procopides qui, lui è in un mare di guai. Qualcuno lo ucciderà. Ma forse tu puoi evitare che questo avvenga. Lo faresti, non è vero, Moot?»
Adesso fu il volto del ragazzo a esprimere pensieri in conflitto fra loro. «Credo di sì» disse alla fine. Sollevò appena la testa, guardò verso Theo, poi distolse subito lo sguardo.
«Moot?» disse sua madre, incitandolo con dolcezza.
«Si tinge i capelli» disse il ragazzo, come se fosse una cosa odiosa da dire. «È tutto grigio.»
Theo annuì. Il giovane Helmut non capiva. Come poteva? A sette anni, trasportato all’improvviso dal luogo in cui si trovava… forse un’aula, o un parco giochi, o magari la sua stessa, confortevole camera da letto. Trasportato da lì in un obitorio, a guardare un cadavere che veniva sezionato, a vedere il sangue denso e scuro che fluiva lungo la scanalatura del suo giaciglio metallico.
«Ti prego» disse Theo. «Io… ecco, io ti prometto di non tingermi più i capelli.»
Il ragazzo rimase tranquillo per un bel po’, quindi parlò in modo esitante, incerto.
«Usavano un sacco di parole strane. Molte non le ho capite.»
«Parlavano in francese?»
«No, in tedesco. Quell’altro tizio, lui non aveva un accento, come non ce l’ho io.»
Theo accennò un sorriso; l’accento di Moot era in effetti piuttosto lieve, almeno a suo parere. D’altra parte i due terzi della popolazione svizzera parlavano tedesco, e appena il diciotto per cento si esprimeva regolarmente in francese. Certo, Ginevra si trovava nella parte francofona del paese, ma non c’era da stupirsi se due residenti di lingua tedesca parlavano la loro lingua quando si trovavano da soli.
«Hanno detto qualcosa su una ferita di entrata?»
«Che cosa?»
«Una ferita di entrata.» In quel momento Moot e Theo stavano parlando francese; Theo sperava di sapersi esprimere correttamente in quella lingua. «Capisci, il punto da dove è entrato il proiettile.»