L’uomo lo guardò; evidentemente Lloyd aveva usato un’espressione colloquiale nordamericana che l’altro non conosceva.
«L’IA» ripeté Lloyd. «L’impianto di amplificazione.»
L’uomo continuò a fissarlo senza capire.
«L’interfono!»
«Oh, certo» disse l’altro, in un inglese indurito dall’accento tedesco. «Per di qua.» Condusse Lloyd a una consolle e manipolò alcuni pulsanti. Lloyd impugnò la bacchetta di plastica sottile che aveva alla sommità il microfono allo stato solido.
«Qui è Lloyd Simcoe.» Poteva sentire la sua voce che usciva dall’altoparlante nel corridoio, ma i filtri nel sistema eliminavano ogni segnale di ritorno. «Chiaramente è successo qualcosa. Diverse persone sono ferite. Se ce la fate a muovere le gambe…» Si bloccò. Per la maggior parte di quelli che lavoravano lì l’inglese era la seconda lingua.
«Se siete in grado di camminare, e se possono camminare anche quelli che sono con voi, o se è quanto meno possibile lasciarli soli, vi prego di raggiungere subito la sala riunioni principale. Qualcuno potrebbe essere caduto in qualche posto che non sappiamo; dobbiamo scoprire chi manca all’appello.» Restituì il microfono all’uomo. «Può ripetere il succo del discorso in tedesco e in francese?»
«Jawohl» rispose l’altro, con le rotelle mentali già in funzione. Cominciò a parlare al microfono. Lloyd si allontanò dai comandi dell’impianto di amplificazione. Poi fece uscire dall’ufficio le persone in buone condizioni fisiche e le accompagnò nella sala riunioni, che era decorata con una lunga targa di ottone recuperata da uno dei vecchi edifici che erano stati demoliti per far posto al centro di controllo dell’LHC. Sulla targa c’era il nome completo dell’acronimo CERN: Conseil Européenne pour la Recherche Nucleate. In quei giorni l’acronimo non significava praticamente più nulla, ma qui venivano onorate le sue radici storiche.
I volti nella sala erano per lo più bianchi, con pochi… Lloyd si bloccò prima di riferirsi mentalmente a loro come americani melanici, la definizione correntemente preferita dai neri degli Stati Uniti. Anche se Peter Carter veniva da Stanford, la maggior parte degli altri neri era giunta direttamente dall’Africa. C’erano anche parecchi asiatici inclusa, naturalmente, Michiko, che aveva raggiunto la sala riunioni in risposta all’annuncio via interfono. Lloyd si diresse verso di lei e l’abbracciò. Grazie a Dio, almeno lei era rimasta illesa. «Qualcuno ha ferite gravi?» le domandò.
«Qualche ammaccatura e un altro naso sanguinante,» rispose Michiko «ma niente di grave. Tu?»
Lloyd cercò la donna che aveva sbattuto la testa. Ancora non si era fatta vedere. «Una possibile commozione cerebrale, un braccio rotto e una brutta ustione.» Fece una pausa. «Dovremmo proprio far venire delle ambulanze… far portare i feriti in ospedale.»
«Me ne occupo io» disse Michiko, e scomparve nell’ufficio.
Il gruppo dei convenuti stava crescendo di numero; adesso c’erano circa duecento persone. «Ascoltatemi tutti!» gridò Lloyd. «Prestatemi ascolto, per favore. Voire attention, s’il vous plaítl» Attese finché tutti gli occhi non furono puntati su di lui. «Guardatevi intorno e vedete se ci sono tutti i vostri collaboratori, o compagni di stanza, o personale di laboratorio. Se manca qualcuno che avete visto oggi, fatemelo sapere. E se qualcuno qui in sala ha bisogno di un intervento medico immediato, fatemi sapere anche questo. Abbiamo chiamato delle ambulanze.»
Mentre concludeva il discorsetto ritornò Michiko. La sua carnagione era ancora più pallida del solito, e quando parlò la sua voce tremava. «Non verrà nessuna ambulanza» disse. «Non subito, comunque. Il centralinista mi ha detto che sono tutte a Ginevra. Pare che tutti gli automobilisti in viaggio abbiano avuto uno svenimento; non sono nemmeno in grado di fare il conto di quante persone siano morte.»
2
Il CERN era stato fondato cinquantacinque anni prima, nel 1954. Il suo personale era formato da tremila impiegati, di cui circa un terzo fisici o ingegneri, un terzo tecnici, e gli altri equamente suddivisi fra amministrativi e operai.
Il Grande collisore per Adroni era stato costruito, con un costo di cinque miliardi di dollari americani, all’interno della stessa galleria sotterranea circolare che correva a cavallo del confine franco-svizzero e nel quale era ancora alloggiato il più vecchio, e ormai inattivo, Grande collisore per elettronipositroni; quest’ultimo era rimasto in servizio dal 1989 al 2000. L’LHC usava degli elettromagneti superconduttori da 10 tesla a campo doppio per muovere le particelle lungo l’anello gigante. Il CERN aveva il più grande e più potente sistema criogenico al mondo, che utilizzava elio liquido per raffreddare i magneti fino ad appena 1.8 gradi Celsius al di sopra dello zero assoluto.
Il Grande collisore per Adroni consisteva in effetti di due acceleratori in uno: il primo accelerava le particelle in senso orario, il secondo in senso antiorario. Il raggio di una particella che andava in una direzione poteva essere fatto collidere con un altro raggio che andasse in direzione opposta, e poi…
E poi E=mc2, alla grande.
L’equazione di Einstein afferma semplicemente che la materia e l’energia sono intercambiabili. Se si fanno collidere particelle a una velocità sufficientemente alta, l’energia cinetica della collisione può essere convertita in particelle instabili.
L’LHC era stato attivato nel 2006, e durante i suoi primi anni di lavoro aveva fatto collidere protoni contro protoni, producendo energie fino a un massimo di quattordicimila miliardi di elettron-volt.
Ma adesso era tempo di passare alla Fase Due, e Lloyd Simcoe e Theo Procopides avevano guidato la squadra che aveva progettato il primo esperimento. Nella Fase Due, invece di far collidere i protoni fra loro, i nuclei del piombo — ciascuno dei quali era duecentodiciassette volte più pesante di un protone — sarebbero stati fatti collidere l’uno contro l’altro. Le collisioni risultanti avrebbero prodotto mille e centocinquanta miliardi di miliardi di elettron-volt, paragonabili al livello di energia dell’Universo appena un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. A quel livello di energia, Lloyd e Theo avrebbero dovuto produrre il bosone di Higgs, una particella che i fisici inseguivano da mezzo secolo.
Al contrario, produssero morte e distruzione su scala impressionante.
Gaston Béranger, direttore generale del CERN, era un uomo compatto e irsuto, con un naso affilato e prominente. Nel momento in cui si verificò il fenomeno, era seduto nel suo ufficio. Era l’ufficio più spazioso in tutta l’area del CERN, con un lungo tavolo da conferenze in legno massello proprio di fronte alla sua scrivania, e un grosso bar, ben fornito, con la parete interna a specchio. Béranger non beveva… non più; non c’era niente di più difficile che essere un alcolista in Francia, dove il vino abbondava in ogni pasto. Gaston aveva vissuto a Parigi fino alla nomina al CERN. Ma quando giungevano gli ambasciatori per vedere in che modo venivano spesi i loro milioni, lui doveva riuscire a versare loro un bicchiere di liquore senza mostrare mai quanto disperatamente lo avrebbe desiderato anche lui.
Naturalmente quel pomeriggio Lloyd Simcoe e il suo compagno Theo Procopides stavano provando il loro grande esperimento nell’LHC; Gaston avrebbe potuto cancellare gli impegni in agenda per andare ad assistervi, ma c’era sempre qualcosa di importante da fare, e se avesse seguito di persona ogni corsa dell’acceleratore non sarebbe mai riuscito a finire nessun lavoro. Per di più doveva prepararsi per la riunione dell’indomani mattina con la squadra di Gec Alsthom, e…
«Raccoglila!»
Gaston Béranger non aveva dubbi su dove si trovasse: era casa sua, sulla rive droite di Ginevra. La scaffalatura dell’Ikea era la stessa, così come il divano e la poltrona. Ma il TV color Sony e il suo mobile non c’erano più. Invece, proprio al di sopra del punto in cui avrebbe dovuto esserci il televisore, c’era un monitor a schermo piatto montato sulla parete. Stava trasmettendo un incontro internazionale di lacrosse. Una delle due squadre era chiaramente la Spagna, ma non riusciva a riconoscere l’altra, che indossava delle magliette verde e porpora.