Un giovane era entrato nella stanza. Gaston non riconobbe nemmeno lui. Indossava quella che sembrava essere una giacca di pelle nera, e l’aveva gettata sull’estremità del divano, da dove era scivolata sul tappeto. Un piccolo robot, non più grande di una scatola per scarpe, rotolò da sotto un sofà e si diresse verso la giacca caduta. Gaston puntò un dito contro il robot e latrò: «Arrèt!». La macchina si bloccò, poi, dopo un attimo, se ne tornò sotto il sofà.
Il giovane si voltò. Dimostrava diciannove, forse vent’anni. Sulla sua guancia destra c’era quello che sembrava il tatuaggio animato di un fulmine; percorreva a zig-zag il volto del ragazzo in cinque balzi separati, poi ripeteva il ciclo all’infinito.
Mentre si girava, il lato sinistro della sua faccia divenne visibile… e fu orribile, con tutti i muscoli e i vasi sanguigni chiaramente in evidenza, come se, in qualche modo, avesse trattato la pelle con un prodotto chimico che l’aveva resa trasparente. La mano destra del giovane era ricoperta da un guanto esoscheletrico da cui le dita si protendevano in lunghe estensioni che terminavano con punte d’argento scintillante, chirurgicamente affilate.
«Ho detto raccoglila!» ringhiò Gaston in francese… o, almeno, era la sua voce; non aveva la sensazione di pronunciare volontariamente le parole. «Finché sono io a pagarti i vestiti, farai bene ad averne cura.»
Il giovane lo fissò. Gaston era sicuro di non conoscerlo, ma aveva una rassomiglianza con… chi? Era difficile dirlo, con quella faccia spettrale semitrasparente, ma la fronte alta, le labbra sottili, quegli occhi grigi e freddi, quel naso aquilino…
Le punte affilate delle estensioni delle dita si ritrassero con un ronzio, e il ragazzo raccolse la giacca fra il pollice e l’indice meccanico, tenendola adesso come se fosse qualcosa di ripugnante. Mentre lo faceva, Gaston non poté fare a meno di notare che c’erano anche un sacco di altri particolari sbagliati: l’abituale sistemazione dei libri sugli scaffali era cambiata completamente, come se qualcuno avesse riorganizzato in parte ogni cosa. E, a dire il vero, sembravano esserci molti meno volumi di quanti avrebbero dovuto trovarsi lì, quasi che la biblioteca di famiglia fosse stata pesantemente falcidiata. Un altro robot, questo simile a un ragno e grande più o meno come una mano allargata, si stava facendo strada lungo gli scaffali, apparentemente intento a spolverare.
Su una parete, dove c’era sempre stata una riproduzione incorniciata del Moulin de la Gaiette di Monet, adesso c’era un’alcova in cui era alloggiata quella che sembrava una scultura di Henry Moore… ma no, no, lì non poteva esserci nessuna alcova; quel muro era in comune con l’edificio adiacente. Doveva trattarsi proprio di un oggetto piatto, un ologramma o qualcosa di simile, appeso alla parete, che dava un’illusione di profondità; in tal caso, l’illusione era assolutamente perfetta.
Anche le porte del guardaroba erano cambiate; si aprirono spontaneamente mentre il ragazzo si avvicinava. Lui allungò la mano, tirò fuori una stampella e vi appese la giacca. Poi ripose la stampella dentro l’armadio… e la giacca scivolò sul pavimento.
La voce di Gaston risuonò, ancora sferzante: «Dannazione, Marc, non puoi stare più attento?»
Marc…
Marc!
Mon Dieu!
Ecco perché c’era in lui qualcosa di già visto.
Una rassomiglianza familiare.
Marc. Il nome che Marie-Claire e lui avevano scelto per il bambino che lei portava in grembo.
Marc Béranger.
Gaston non lo aveva mai nemmeno tenuto in braccio, non gli aveva dato i colpetti sulla schiena per fargli fare i ruttini, non gli aveva mai cambiato i pannolini, eppure eccolo lì, già cresciuto, un uomo… un uomo spaventoso, ostile.
Marc osservò la giacca caduta, con la guancia ancora lampeggiante, poi si allontanò dall’armadio lasciando che la porta si richiudesse con un sibilo alle sue spalle.
«Accidenti a te, Marc» disse la voce di Gaston. «Mi sono stufato del tuo modo di fare. Non troverai mai un lavoro se continui a comportarti così.»
«Fottiti» disse il ragazzo, la voce profonda, il tono beffardo.
Quelle erano le prime parole di suo figlio: non mamma, o papà, ma ‘fottiti’.
Poi, come se potesse esserci ancora qualche dubbio, proprio in quel momento Marie-Claire entrò nel campo visivo di Gaston, emergendo dallo studio attraverso un’altra porta scorrevole. «Non rivolgerti a tuo padre in quel modo» disse.
Gaston fu colto alla sprovvista: era Marie-Claire, su questo non c’erano dubbi, ma sembrava più sua madre che se stessa. Aveva i capelli bianchi, il volto segnato dalle rughe, e aveva addosso almeno quindici chili in più.
«Fottiti anche tu» disse Marc.
Gaston suppose che la sua voce avrebbe protestato: «Non parlare così a tua madre». Non rimase deluso.
Prima che Marc si voltasse, Gaston notò di sfuggita una zona rasata sul retro della testa del ragazzo, e una presa metallica impiantata chirurgicamente.
Doveva essere un’allucinazione. Doveva. Ma che allucinazione terrificante! Marie-Claire avrebbe partorito da un giorno all’altro. Per anni avevano provato ad avere un bambino… Gaston era capace di unire senza difficoltà un elettrone e un positrone, ma chissà perché lui e Marie-Claire avevano avuto grosse difficoltà a unire un ovulo e uno spermatozoo, ciascuno dei quali era milioni di volte più grande di quelle particelle subatomiche. Ma alla fine era successo: alla fine Dio gli aveva sorriso, alla fine sua moglie era rimasta incinta.
E adesso, finalmente, dopo nove mesi erano in attesa del lieto evento. Tutta quella preparazione per il parto indolore, tutti i loro progetti, la prenotazione della clinica… tutto stava giungendo a compimento.
E adesso questo sogno; non poteva che essere un sogno, solo un brutto sogno. Paura: aveva avuto il peggiore incubo della sua vita appena prima di sposarsi. Perché questo doveva essere differente?
Ma era differente. Era molto più realistico di qualsiasi sogno lui avesse mai fatto. Pensò alla presa sulla nuca di suo figlio; pensò alle immagini che venivano pompate direttamente in un cervello… la droga del futuro?
«Piantala di rompere» disse Marc. «Ho avuto una giornata pesante.»
«Oh, davvero?» disse la voce di Gaston, grondante sarcasmo. «Hai avuto una giornata pesante, eh? Una giornata pesante a terrorizzare i turisti nella città vecchia, no? Avrei dovuto lasciarti marcire in galera, teppistello ingrato…»
Gaston rimase sconvolto nel sentirsi così simile a suo padre… le cose che suo padre gli aveva detto quando lui aveva l’età di Marc, le cose che aveva promesso a se stesso di non dire mai a suo figlio.
«Dai, Gaston…» disse Marie-Claire.
«Be’, se non apprezza quello che ha qui…»
«Non so che farmene di questa merda» disse Marc con disprezzo.
«Basta!» scattò Marie-Claire. «Basta!»
«Vi odio» disse Marc. «Vi odio entrambi.»
La bocca di Gaston si aprì per replicare, e poi…
E poi, all’improvviso, si ritrovò di nuovo nel suo ufficio al CERN.
Dopo aver fatto rapporto su tutti i decessi, Michiko Komura tornò immediatamente nell’ufficio principale del centro di controllo del collisore. Continuò a cercare di telefonare alla scuola di Ginevra frequentata dalla figlia di otto anni, Tamiko; Michiko aveva divorziato dal primo marito, un dirigente di Tokyo. Ma tutto ciò che ottenne fu un segnale di occupato dopo l’altro: chissà per quale motivo, la società svizzera dei telefoni non si stava offrendo di avvisarla automaticamente quando la linea fosse stata libera.