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Tuttavia, mentre la data della replica si avvicinava, Theo scoprì che stava diventando sempre più apprensivo. Cercò di convincersi che era solo dovuto al nervosismo per l’eventualità di deludere il mondo intero una seconda volta se qualcosa non avesse funzionato, ma l’LHC sembrava in perfetta efficienza, e quindi Theo dovette ammettere che la causa non era quella.

No, era nervoso perché si stava rapidamente avvicinando il giorno in cui, secondo le visioni del 2009, lui sarebbe morto.

Theo si accorse che non riusciva a mangiare, né a dormire. Se fosse riuscito a scoprire chi era che lo voleva morto forse la cosa sarebbe stata meno traumatica… gli sarebbe semplicemente bastato evitare quella persona. Ma non aveva idea di chi avesse potuto/avrebbe potuto/potesse premere il grilletto.

Alla fine, inevitabilmente, arrivò il lunedì 21 ottobre 2030: la data che, almeno in una versione della realtà, era scolpita sulla lastra tombale di Theo. Theo si svegliò quella mattina bagnato da un sudore freddo.

C’era ancora un bel po’ di lavoro da fare al CERN: mancavano ancora due giorni al momento in cui i neutrini di Sanduleak avrebbero colpito. Theo cercò di liberare la mente da tutti i suoi pensieri, ma anche quando giunse in ufficio si accorse che non riusciva a concentrarsi.

Poi, poco dopo le dieci del mattino, non ce la fece più. Lasciò la sala di controllo del collisore, infilandosi un berretto beige con la visiera abbassata e un paio di occhiali da sole. Non c’era poi tutta quella luce; la temperatura era fresca, e il cielo era per metà coperto di nuvole. Ma nessuno usciva più senza proteggersi la testa e gli occhi. Anche se era stato finalmente fermato il logorio della fascia di ozono, ancora non era stato fatto niente di efficace per ripristinarla.

Il sole scintillava oltre i pinnacoli rocciosi delle montagne del Giura. Nel parcheggio si trovava un autobus della Globus Gateway: il CERN ormai in gran parte smantellato non era più un’attrazione segnata in rosso sulla guida Michelin, naturalmente, e poi, con tutto il baccano che circondava il tentativo di replica, non erano comunque ammessi turisti nel centro. Quell’autobus era stato preso a noleggio per trasferire dall’aeroporto una folla di giornalisti che si erano precipitati lì per documentare il lavoro di preparazione della replica.

Theo si diresse verso la sua macchina, una Ford Octavia rossa: un mezzo di trasporto efficiente e robusto. Aveva passato la sua giovinezza a giocare con acceleratori di particelle che costavano miliardi di dollari, e non aveva bisogno di un’automobile da sogno per affermare il suo valore.

La macchina lo riconobbe appena lui si avvicinò, e Theo fece un cenno di assenso per indicare che voleva davvero salire a bordo. Lo sportello dal lato del guidatore si aprì scivolando nel tettuccio. Si potevano ancora acquistare automobili le cui porte si aprivano lateralmente, ma con i parcheggi così affollati in quasi tutti i grandi centri urbani erano più convenienti gli sportelli che non avevano bisogno di spazio per aprirsi.

Theo salì in macchina e le disse dove voleva andare. «A quest’ora del giorno» disse la macchina con una piacevole voce maschile «arriveremo prima prendendo Rue Meynard.»

«Bene» disse Theo. «Guida tu.»

La macchina cominciò a farlo, sollevandosi dal suolo e mettendosi in movimento. «Musica o notiziario?» gli chiese.

«Musica» rispose Theo.

La macchina si riempì della musica di uno dei complessi preferiti di Theo, un popolare gruppo da sballo coreano. Ma la musica non riuscì a calmarlo. Dannazione, sapeva che non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi in Svizzera, ma l’LHC era tuttora il più grande macchinario al mondo nel suo genere; episodici tentativi, antecedenti all’invenzione del CTT, per rilanciare il progetto Supercollisore superconduttore, tagliato nel 1993 dal Congresso degli Stati Uniti, erano tutti falliti. E l’arte di far funzionare e riparare gli acceleratori di particelle era ormai in via di estinzione. Molti di coloro che avevano costruito l’acceleratore LEP originale — il primo montato nella gigantesca galleria sotterranea del CERN — erano morti oppure in pensione, e solo pochi fra quelli che avevano preso parte, un quarto di secolo prima, all’allestimento dell’LHC erano ancora in attività. Quindi in Svizzera c’era bisogno dell’esperienza di Theo, ma che gli prendesse un colpo se aveva voglia di starsene lì a fare da bersaglio.

La macchina si fermò all’esterno del luogo di destinazione che Theo aveva richiesto: il quartier generale della Polizia di Ginevra. Era un vecchio edificio, vecchio più di un secolo, in effetti, e anche se i motori a combustione interna erano illegali su tutte le vetture fabbricate dopo il 2021, il palazzo mostrava ancora i segni di decenni di inquinamento; prima o poi avrebbero dovuto sabbiarlo.

«Apri» disse Theo, e lo sportello scomparve nel tettuccio.

«Non ci sono posti liberi nel parcheggio in un raggio di cinquecento metri» disse l’automobile.

«Allora continua a muoverti attorno all’isolato» disse Theo. «Ti chiamerò quando sarò pronto a risalire a bordo.»

La macchina emise un cinguettio di comprensione.

Theo si infilò il berretto e gli occhiali e scese. Attraverso il marciapiede, salì gli scalini ed entrò nel palazzo.

«Bonjour,» disse un uomo alto e biondo seduto dietro un bancone, «Je peux vous aider?»

«Oui,» rispose Theo. «Detective Helmut Drescher, s’il vous plàit.» Il giovane Helmut Drescher era davvero un funzionario di polizia, adesso; Theo, preso allora da semplice curiosità, lo aveva verificato parecchi mesi prima.

«Moot non c’è» disse l’uomo, sempre parlando in francese. «Forse qualcun altro può esserle utile?»

Theo provò una stretta al cuore. Drescher, almeno, poteva capirlo, ma cercare di spiegare tutto a un estraneo… «Io speravo proprio di poter parlare con il detective Drescher» disse Theo. «Pensa che tornerà presto?»

«Proprio non… oh, guardi, questo dev’essere il suo giorno fortunato. Ecco Moot.»

Theo si voltò. Due uomini più o meno dell’età giusta stavano entrando nel palazzo; Theo non aveva idea di quale dei due potesse essere Drescher. «Detective Drescher?» disse, a caso.

«Sono io» rispose quello sulla destra. Helmut era cresciuto ed era diventato un bell’uomo con i capelli castani lisci, la mascella volitiva e limpidi occhi azzurri.

«Come le avevo detto» disse il funzionario al bancone alle spalle di Theo. «È il suo giorno fortunato.»

Solo se alla fine sarò ancora vivo, pensò Theo. «Detective Drescher» disse Theo. «Devo parlarle.»

Drescher si rivolse all’uomo insieme al quale era entrato. «Ti raggiungo più tardi, Fritz» gli disse. Fritz annuì e si addentrò nel palazzo.

Drescher non mostrava alcun segno di avere riconosciuto Theo. Naturalmente erano passati ventuno anni da quando si erano visti per l’ultima volta e, anche se si era fatto un gran parlare sui media del tentativo di replicare la dislocazione temporale, negli ultimi tempi Theo era stato troppo occupato per apparire con sufficiente frequenza in televisione; per lo più aveva lasciato l’incarico a Jake Horowitz.

Drescher accompagnò Theo verso l’interno; era vestito in borghese, ma Theo non poté fare a meno di notare che aveva delle scarpe di ottima qualità. Drescher posò la mano sopra un lettore palmare e le porte gemelle si aprirono, lasciandoli entrare nella sala operativa. I ‘piattini’ — computer sottilissimi — erano ammucchiati su qualche scrivania e sparpagliati su altre formando strane composizioni sovrapposte. Un’intera parete era occupata da una mappa che mostrava lo schema del traffico di Ginevra, con ogni veicolo segnalato da un trasmettitore individuale. Theo la studiò per cercare di individuare la sua vettura che orbitava intorno al palazzo; gli sembrò di non essere l’unica a farlo, in quel momento.