«Dove deve trovarsi, oggi?»
«Al CERN. O nel mio ufficio, nella sala di controllo dell’LHC, oppure dentro la galleria.»
«Galleria?»
«Già. Deve averne sentito parlare: al CERN c’è una galleria circolare lunga ventisette chilometri, costruita cento metri sotto il livello del terreno. Un anello gigantesco, insomma. E lì che si trova il collisore.»
Drescher si morse per un attimo il labbro inferiore. «Lasci che parli con il mio capitano» disse. Si alzò, attraversò la stanza e bussò a una porta. La porta scivolò di lato e Theo riuscì a vedere all’interno una donna dai capelli neri, con l’aria severa. Drescher entrò e la porta si richiuse alle sue spalle.
Gli sembrò che trascorresse un tempo interminabile. Theo si guardò intorno nervosamente. Sulla scrivania di Drescher c’era un ologramma di una giovane donna che poteva essere sua moglie o la sua ragazza, insieme a un uomo e una donna più anziani. Theo riconobbe la donna anziana: frau Drescher. Presumendo che si trattasse di un’immagine recente — e in effetti doveva esserlo, visto che solo da un paio d’anni le olocamere erano scese di prezzo, arrivando al livello di un onesto funzionario di polizia — allora il tempo era stato clemente con lei. Era ancora una bella donna, orgogliosa di mostrare il grigio dei suoi capelli.
Finalmente la porta in fondo alla stanza si riaprì, e ne uscì il detective Drescher. Attraversò la sala operativa piena di gente in attività e tornò alla sua scrivania. «Mi dispiace» disse mentre si metteva a sedere. «Se qualcuno avesse fatto qualche minaccia o cose del genere…»
«Mi lasci parlare con il suo capitano.»
Drescher sbuffò. «Non la riceverà; per la metà del tempo non riceve neanche me.» Addolcì il tono della voce. «Mi dispiace davvero, signor Procopides. Mi dia retta… cerchi di essere prudente, tutto qui.»
«Io credevo che lei — lei soprattutto — avrebbe capito.»
«Sono un semplice poliziotto» disse Drescher. «Prendo ordini.» Fece una pausa, e la sua voce assunse un tono faceto. «E poi, magari venire qui è stato solo un grosso errore, da parte sua. Voglio dire, e se fossi proprio io il tipo che le ha sparato nella visione? Agatha Christie non scrisse una storia del genere, una volta, in cui l’investigatore è l’assassino? Sarebbe il colmo dell’ironia, allora, essere venuto proprio da me, no?»
Theo sollevò le sopracciglia. Il cuore gli batteva forte, e lui non sapeva che cosa dire. Gesù Cristo, gli avevano sparato con una Glock, una delle pistole preferite dai funzionari di polizia di tutto il mondo…
«Non si preoccupi» disse Drescher con una smorfia. «Stavo solo scherzando. Ho pensato che avevo il diritto di farle prendere un bello spavento, dopo tutto quello che mi ha fatto lei tanti anni fa.» Ma allungò la mano e passò un paio di volte l’indice per cancellare la trascrizione delle ultime frasi dal piattino.
«Buona fortuna, signor Procopides. Come le ho detto, sia prudente. Per miliardi di persone il futuro si è rivelato diverso da quello che avevano mostrato le loro visioni. Non sarei io a doverglielo dire, visto che lei è uno scienziato, ma non c’è proprio nessuna ragione per ritenere che la sua visione sia proprio quella che si avvererà.»
Theo usò il telefono cellulare per chiamare la macchina, e quando arrivò salì a bordo.
Senza dubbio Drescher aveva ragione. Theo provò un senso di imbarazzo per il suo attacco di panico; probabilmente era stato originato da un brutto sogno fatto la notte prima, unito alla tensione per la replica imminente. Cercò di rilassarsi, osservando la campagna mentre la sua vettura lo riportava al centro di controllo dell’LHC. Il pullman dei turisti era ancora lì. La cosa gli fece venire un po’ di nostalgia. Naturalmente i pullman della Globus Gateway si vedevano in tutta Europa. Theo non ne aveva mai preso uno, ma quando era un ragazzotto eccitato, lui e un paio dei suoi amici li tenevano sempre d’occhio, in luglio e agosto. Spesso le adolescenti americane in cerca di avventure estive viaggiavano su quei pullman; negli anni della sua giovinezza Theo aveva trascorso più di una notte romantica insieme a una di quelle studentesse.
Il piacevole ricordo svaní, però, trasformandosi in tristezza; adesso pensava a casa, ad Atene. Dopo il funerale di Dim ci era tornato solo due volte. Perché non aveva passato più tempo con i suoi genitori? Theo lasciò che la macchina trovasse un posto vuoto, scese e puntò verso il centro di controllo.
«Oh, Theo» disse Jake Horowitz, dirigendosi verso di lui dall’estremità opposta del corridoio con i mosaici. «Ho cercato di mettermi in comunicazione con te. Ho chiamato la tua macchina, ma mi ha detto che eri stato arrestato o qualcosa del genere.»
«La macchina aveva voglia di scherzare» disse Theo. «In realtà sono solo andato a trovare… qualcuno che credevo fosse un vecchio amico.»
«C’è un problema con il collisore che Jiggs non sa come risolvere.»
«Eh?»
«Già, qualcosa che ha a che fare con le unità criostatiche… numero quattro-quaranta, nell’ottante numero tre.»
Theo aggrottò la fronte. Erano anni che il grande collisore non funzionava più a pieno regime. Jiggs, appena trentaquattro anni, era il responsabile della divisione manutenzione, e non aveva mai visto l’impianto usato a livelli di 14-TeV.
Theo annuì; i controlli criostatici erano notoriamente esigenti. «Andrò a dare un’occhiata.» Ai vecchi tempii quando il CERN aveva tremila dipendenti, Theo non si sarebbe mai recato nel tunnel da solo, ma con il personale attualmente ridotto al minimo gli sembrò il modo migliore per sopperire alla mancanza di mano d’opera, e poi, be’, probabilmente la galleria era il posto più sicuro in cui stare: certo, un pazzo poteva sempre penetrare nel campus del CERN, tentando di uccidere Theo, ma ovviamente un intruso del genere sarebbe stato bloccato molto prima che potesse raggiungere la galleria. E poi nessuno, a parte Jake e Jiggs — di cui Theo si fidava ciecamente — avrebbe saputo che lui si trovava lì dentro.
Theo prese l’ascensore e scese a livello meno cento metri. L’aria nel tunnel dell’acceleratore di particelle era umida e calda, e odorava di olio per macchine e di ozono. La luce era bassa, un biancore con sfumature azzurre dalle lampade fluorescenti sul soffitto, punteggiato a intervalli regolari dalle luci gialle d’emergenza fissate alle pareti. Il fremito delle macchine, il ronzio delle pompe dell’aria e il ticchettio dei tacchi di Theo sul pavimento di cemento riecheggiavano rumorosamente. Vista in sezione la galleria era circolare, a parte il pavimento piatto, e il suo diametro variava fra 3,8 e 5,5 metri.
Come aveva fatto spesso in precedenza, Theo Procopides osservò il tunnel in una direzione, poi nell’altra. Non era proprio diritta. Riusciva a seguirne la traiettoria per una notevole distanza, ma poi le pareti cominciavano a curvarsi.
Dal soffitto pendeva la putrella di sostegno e appesa a quella c’era la monorotaia vera e propria: Jiggs l’aveva lasciata parcheggiata lì. La monorotaia consisteva in una cabina abbastanza grande da contenere una persona, tre piccole vetture ciascuna delle quali progettata per trasportare attrezzatura più che passeggeri, e una seconda cabina in coda, rivolta nella direzione opposta. Le vetture erano poco più che ceste metalliche pendenti, color blu pavone. Adesso le due cabine erano aperte, strutture arancioni con dei fari montati sotto i parabrezza inclinati e un grosso paraurti di gomma fissato sulla parte inferiore. I parabrezza avevano un’angolatura molto acuta.
Il guidatore doveva sedere con le gambe rannicchiate di fronte a lui; la cabina non era abbastanza alta da accogliere una persona normalmente seduta. Il nome ORNEX — la ditta che aveva costruito la monorotaia — era inciso a mo’ di ornamento sulla parte anteriore. Sui due lati del nome c’erano dei piccoli riflettori rossi, e sotto una larga striscia con dei segni bianchi e gialli; volevano essere assolutamente sicuri che le cabine fossero visibili nell’oscurità della galleria. La monorotaia era stata aggiornata nel 2020; adesso era in grado di raggiungere i sessanta chilometri l’ora, il che significava che poteva circumnavigare l’intera galleria in meno di trenta minuti.